Aguzzate la vista perché è il dettaglio che conta. Sì, emergono i casi, i fatti, gli eventi, ma è soltanto attraverso il dettaglio che meglio risuoneranno tutte le corde della nostra indignazione. Prendete il catalogo di Dustin Hoffman, più lungo di un albo d’oro d’artista, esordi nella lussuria aggressiva che risalgono addirittura al 1980, secondo le ultime denunce. Comandavano Jimmy Carter negli Stati Uniti e Leonid Breznev in Unione Sovietica: ma una volta si diceva «peccato di pantalone, pronta assoluzione», ora «nessuna prescrizione». E, infatti, è il dettaglio che impedisce clemenza. Tutti sappiamo, adeguatamente informati, dove mettesse le mani Dustin Hoffman, dove se le facesse mettere, come tenesse l’asciugamano sulle nudità e come se lo lasciasse scivolare dai fianchi. Sarà un 2018 di molti altri accusati e di accuse particolareggiate, per un intrattenimento globale di stampo civile. Dicono che sarà l’anno della resa dei conti fra i sessi ma noi qui siamo oltre, siamo alla resa dei conti del sesso altrui, alla sua totale fruibilità, ci sono state circostanziate le foto in déshabillé che il sindaco di Mantova mandava alla bella vedova, e di come la sventurata rispose, cioè non più pudica (e un po’ falsa). Che dovrebbero essere precisamente c… loro, ma quella parola non si può scrivere, se ne può alludere con giri di parole, e un altro giro di guardonismo per diritto di cronaca.

 

Rottàmami tutto, ma non il festival di Sanremo  

 

 

Una delle più spettacolari lagne all’italiana ha a che vedere col paese dei vecchi, per i vecchi, dei soliti noti, del rinnovamento impossibile. Non facciamo altro che rinnovare, da lustri, e nei momenti migliori rottamiamo. Abbiamo il Parlamento più giovane di tutti i tempi, siamo pieni di leader quarantenni, di facce nuove e noialtri qui sempre con la solita faccia. E questa smania di cambiamento, senza mai ben sapere con chi cambiare, avrà il suo tripudio con il festival di Sanremo, nostromo Claudio Baglioni, un campione del millennio scorso, un fuoriclasse in vista dei settanta che radunerà i suoi gloriosi coetanei, Ornella Vanoni ed Enrico Ruggeri, Riccardo Fogli e Roby Facchinetti. Saremo tutti lì, in milioni e milioni, incollati allo schermo dalla nostra migliore ironia, animati dal più spietato senso critico, così grati a Sanremo che ci offre l’occasione sacramentale di affacciarci alla finestra per dire tutto quello che non va.

 

L’oziosa sfida ai Cinque stelle e al congiuntivo  

 

 

A proposito di novità, la novità delle novità è il trentunenne Luigi Di Maio candidato premier della forza politica più nuova e, almeno nei proclami, più rivoluzionaria che ci sia. Poi le cose sono un po’ cambiate: la dittatura del proletariato online si è annacquata sotto la più tradizionale delle gerarchie. Innovatori, i cinque stelle, anche in fatto di sintassi, storia, geografia, filosofia politica e cento altre discipline, ma segnalare gli strafalcioni, le incongruenze, i disincantati e inconsapevoli sacrilegi contro lo stato di diritto, è operazione oziosa e controproducente. Ci sono momenti in cui qualcosa si muove, qualcosa di potente, spesso di irrazionale e – diceva Elias Canetti – i nemici designati possono fare quello che vogliono, essere duri o miti, dire la verità o accondiscendere alla bugia, comunque ne resteranno travolti. La sensazione è che i sondaggi sottovalutino i cinque stelle. Le elezioni di marzo saranno uno spettacolo.

 

Putin, ovvero l’esportazione del lato chiaro della forza  

 

 

A marzo Vladimir Putin sarà eletto alla presidenza della Federazione russa per la quarta volta, con un intermezzo da primo ministro e così, alla prossima scadenza, nel 2022, sarà arrivato a ventitré anni di comando, più di Benito Mussolini, molto più di Nicolae Ceausescu, oltre il doppio di Nikita Krushev. E sempre che allora, alla ormai politicamente adolescenziale età di settant’anni, non decida di prolungare la già prodigiosa carriera. Con la differenza, rispetto ai dittatori citati, che Putin vive e prospera in condizioni di precaria democrazia – dove agli oppositori capitano spesso formidabili disgrazie – ma comunque l’aspetto della democrazia ha. Il che prova che esportare la democrazia è un atto di presunzione, ma nemmeno importarla è questione di carte bollate (il mondo è davvero così interessato alla democrazia, compreso il mondo che già la amministra?). Putin è amato in patria per lo stesso motivo per cui è temuto: l’atto di potenza di cui è capace da un ventennio. E ora che l’ombra della sua tonante sagoma si allunga sull’Europa e sul Medio Oriente, prospera un’Internazionale degli ammiratori: la democrazia è contagiosa, la forza di più.

 

Berlusconi, Sorrentino e la nemesi del narratore 

 

 

Uno dei pochi geni dell’Italia contemporanea si occupa di uno dei pochi altri geni dell’Italia contemporanea. E cioè, Paolo Sorrentino si occupa di Silvio Berlusconi (ehi, detrattori, piano con l’animosità, chiamatelo pure genio del male, ma genio resta). Il film dovrebbe uscire a maggio, ma chi se ne importa? Conta che esca, e sarà l’evento cinematografico, e non solo, dell’anno. Il problema è se Berlusconi sia riducibile dentro un film, il problema è la riproduzione stessa di Berlusconi: nessun vignettista è riuscito davvero a disegnarlo, nessun imitatore a imitarlo – gli è toccato contentarsi della caricatura – e nessun biografo è riuscito a restituire tanto la complessità e la completezza del descritto quanto le ossessioni del descrittore. Chiunque abbia provato a imprigionare Berlusconi, non soltanto dentro una legge, ma anche dentro una pagina o un fotogramma, ha finito col subire la nemesi, e ne è rimasto imprigionato. Auguri a Sorrentino.

 

Il giorno in cui Messi diventerà come Borges

 

 

I Mondiali di calcio senza l’Italia saranno come un giorno d’estate in città quando il resto della famiglia è al mare: uno sprazzo di pace senza implicazioni sentimentali. Per voi. Per chi scrive non cambia molto, essendo egli perduto d’amore per Lionel Messi. Si starà lì a vedere se, finalmente, sarà certificato l’intimo convincimento: Leo è il migliore di sempre. Cristiano Ronaldo, per dire, è il Demonio, ma Leo è Dio. Anche Maradona era soprannaturale, e quando dribblò l’intera squadra inglese ai Mondiali dell’86, ristabilendo che le Falkland si chiamavano Malvine, e prima ancora col gol di mano, il più poetico gesto di antimperialismo della storia, salì lassù dove ad aspettarlo c’era soltanto Pelé. Però, nella modernità, il profilo Twitter di Messi si aggiorna: 729 partite, 586 gol, 283 assist, la certezza che nella giornata più buia baluginerà l’istante di un’intuizione impossibile al resto dell’umanità. Maradona era Che Guevara applicato allo sport. Messi è la trasposizione calcistica di José Luis Borges: la misura della mia speranza.

 

Roquefort e pistole. Tanti auguri Sessantotto 

 

 

Tenetevi forte: faranno cinquant’anni dal Sessantotto. Lo animò una generazione che, disse Raymond Aron, detestava il potere in quanto tale. Aggiungiamo che al potere, in quanto tale, molti di quella generazione si sarebbero poi avvinghiati. Qualcuno, che il potere credeva davvero di abbatterlo, decise di armarsi e lasciò in giro vedove e orfani e lacrime per niente, per contare i giorni della giovinezza in carcere. «Noi siamo per la violenza solo come autodifesa. L’unica cosa che possiamo fare è difenderci dall’oppressione», diceva Cox nel più grandioso libro sul Sessantotto, il Radical chic di Tom Wolfe (1970). Lo ascoltavano colmi di buona coscienza progressista gli ospiti di Leonard Bernstein, secondo molti l’insuperato direttore d’orchestra di ogni tempo, e di cui nel 2018 ricorrono i cento anni dalla nascita. Casi della vita: c’è niente che meglio simboleggi il potere assoluto, tirannico, di un direttore d’orchestra? Invitò nel suo attico i ricchi intellettuali newyorchesi per raccogliere fondi in favore delle Pantere Nere, che arrivarono, nell’eccitazione collettiva, con la pistola nella cintura. Si mangiavano bocconcini di roquefort ricoperti di noci tritate.

 

Che bella l’Europa se è una gara fra deboli 

 

 

Se questo sarà l’anno di Emmanuel Macron si vedrà, ma senz’altro sarà l’anno dei nemici di Macron che tendenzialmente sono nemici di Macron perché vorrebbero essere all’altezza di Macron, ma non ci riescono. C’è stato un tempo, piuttosto lungo, in cui i leader italiani cercavano di fare asse con l’Eliseo per contrastare lo strapotere di Berlino. Ora che a Berlino non si riesce a mettere insieme un governo, mentre a Parigi lo si è messo insieme, eccome, e così alla svelta, e così solidamente al comando anche grazie a una legge elettorale che tramite ballottaggio consegna tutto il potere a una minoranza, ecco, ora che gli equilibri sono cambiati, e che Macron ha le idee chiare, e cerca di tirare dritto in nome dell’Europa e soprattutto della Francia, ora Parigi non va più bene, ora Macron è chiamato il presidente coloniale. L’europeismo, in Italia, piace se è una somma di debolezze, nella quale diventiamo competitivi; e ha qualche chance in base a quanto l’Europa fa per l’Italia, e mai viceversa. In fondo un atteggiamento per il quale, nell’Unione, sediamo in larga maggioranza.

 

DeLillo no, Roth neppure. Che sia l’anno di mr. Caldwell 

 

 

Dunque, se siete pigri amanti di Philip Roth, vi siete già messi il cuore in pace, non scrive più romanzi. Forse arriverà in Italia una sua raccolta di saggi. Se siete amanti del sommo Don DeLillo vi siete già sfamati l’anno scorso con Zero K. Se siete amanti del vecchio ridente scandaloso Tom Wolfe niente da fare, non ci sono libri in arrivo. Se siete amanti di quella indiscutibile maestra di scuola di narrativa di Donna Tartt, c’è da aspettare parecchio. Se siete amanti dell’allucinato e ardente Jeffrey Eugenides, nulla in vista. Se siete amanti del puntiglioso e ambizioso Jonathan Franzen, è questione di qualche altro anno. Se siete amanti dello psichedelico e postmoderno Thomas Pynchon, prendete qualcosa di vecchio che non avete ancora letto. Se siete amanti della letteratura americana, perché lì dentro ci si trova ancora un’idea della frontiera, dello spazio da conquistare, palmo a palmo dentro l’anima, un’idea di universalità, per quanto spesso tradita nel manierismo e nella velleità, be’ saranno dodici mesi d’inferno. Zero assoluto. Però potreste fare così, andate a pescare via Internet qualche antico romanzo di Erskine Caldwell (non li pubblicano più), per vedere come si prende un fazzoletto di terra assolata e lo si trasforma nel dolore del mondo intero.

 

Algoritmi e politica. La rivoluzione però dorme  

 

 

We have to go digital, dobbiamo diventare digitali. E proprio adesso, ora che il cofondatore di Twitter scopre che il suo giochino non ha ampliato la libertà di espressione e condivisione ma quella di demenza furibonda e spocchiosa, ora che ex dirigenti di Google parlano di hackeraggio del cervello, ora che da Netflix indicano nelle ore di sonno degli abbonati il più temibile dei concorrenti, ora che fuoriusciti di Facebook raccontano di come si individuano e colpiscono i ragazzi depressi e sconfitti per ricavarne denaro. Proprio ora che i devastanti limiti della comunità online emergono in straripante forza, pari alle straripanti opportunità, we have to go digital, dobbiamo diventare digitali. Dice la ministra dei Trasporti finlandese, Anne Berner, che l’economia digitale è complicata da incasellare: sono finite le agenzie di viaggio ma si viaggia molto di più, sono finite le pellicole ma si fotografa molto di più. Le maggiori aziende del mondo si basano su algoritmi e, su algoritmi, Berner ha rivoluzionato il sistema dei trasporti finlandese in cui, per esempio, il tassista è anche postino. Certo, i tassisti finlandesi non sono tassisti italiani. E i politici italiani sono molto italiani. Ma se la politica vuole stare avanti alla società, e non a ruota, has to go digital. Ci credete per questo 2018? Vabbè, facciamo per il 2030?

 

Vita percepita ai tempi di precariato ed esclusione  

 

 

Si dice, giustamente, che la nuova dialettica non è fra destra e sinistra, ma fra forze di sistema e forze antisistema. O meglio, fra chi si sente incluso e chi si sente escluso – e si usa il verbo «sentirsi» perché tutta la nostra vita è dominata dalle percezioni. La corruzione percepita, la temperatura percepita e anche la povertà percepita. Qualcuno ricorderà la scena di Caterina va in città (film del 2003 di Paolo Virzì) in cui Sergio Castellitto fa il matto al Costanzo Show perché nessuno gli pubblica il libro, siccome lui non appartiene a conventicole. Ecco, l’impressione (percezione) che molti protestanti antisistema siano paranoici come Castellitto è forte. Ma bisogna pur fare i conti anche con le percezioni, magari non alimentando quelle fallaci. Poi di già più enumerabile ci sono i dati sul lavoro precario e sulle retribuzioni da fame. Se qualcuno saprà dare una risposta, senza attingere dal pozzo infinito della demagogia, farà il colpo dell’anno. O del decennio.

 

Che cosa il 2018 si aspetta da noi  

 

 

«Buongiorno, sono il 2018. Ringrazio La Stampa dell’opportunità che mi concede: siccome tutti voi state dicendo che vi aspettate dal 2018, sono molto felice di dire che cosa mi aspetto io da voi. Innanzitutto – un’inezia, ma mi sta molto a cuore – mi piacerebbe tanto se evitaste almeno a me, cosa che non avete fatto con qualche migliaio di anni precedenti, l’espressione “ma è possibile che nel 2018 capitino ancora di queste cose?”. Non capisco che mai dovrebbe succedere durante il mio tempo perché finiscano violenze, ruberie e sciagure varie. Che poi non è colpa mia, è colpa vostra. Io farò il mio dovere: avrete tutti i giorni e tutti mesi che vi spettano, non uno di meno. E non uno di più. Ecco è questo il punto, questo mi aspetto da voi: che continuiate a parlare di diritti ma ricominciate a parlare di doveri, perché la libertà senza responsabilità non è democrazia, è dispotismo. Dunque, voi vi augurate un buon 2018. Io buono lo sarò. Anche voi, spero».  (Mattia Feltri per la Stampa)

via BUONGIORNO 2018 — paolo politi