Eterni diritti (Prima Parte)

Tratto da:Onda Lucana by Ivan Larotonda

“La società democratica mira all’abolizione di tutti i privilegi, mentre lo scopo della società medievale era di garantirli a tutti”. A pronunciare queste parole fu Arthur Joseph Penty (1875- 1937) architetto che aderì al movimento economico dei cattolici inglesi detto distributista. Una posizione reazionaria quindi, una vera e propria dichiarazione di guerra a tutto il sistema politico-economico nato dalla rivoluzione americana, a cui  Penty oppone quel che era il mondo preindustriale, che potremmo definire tradizionale, nel quale privilegio voleva dire caratterizzazione, specificità di ciascun individuo: valeva la funzione dell’uomo all’interno della società, il suo valore. In buona sostanza si teneva conto di quel che ognuno era in grado di fare, non della sua ricchezza.

Questa frase sintetizza anche la polemica che gli inglesi ancora legati alla Chiesa romana, e fin dal tempo di Enrico VIII, nutrivano nei confronti della corona e del parlamento, rei di aver permesso ai detentori di capitale industriale abusi giurisdizionali sempre maggiori, (quella borghesia britannica che era riuscita ad ottenere il potere grazie alle macchine mosse dalla forza del vapore più che dagli archibugi di Cromwell). Era naturale però che tale potere politico, assunto in tempi relativamente brevi, non potesse tener conto delle ricadute sociali sui ceti meno abbienti, le cui condizioni erano peggiorate al punto che possiamo ricondurre al XIX secolo l’epoca in cui l’essere umano fu parificato verso il basso, in una sorta di caduta gnostica, al livello della macchina, assumendo il suo stesso valore. E pensare che una classe specifica ormai al tramonto, l’aristocrazia feudale, avrebbe potuto continuare a mitigare le fatiche della vita alle quali da sempre sono sottoposte e in misura notevolmente maggiore le classi umili.

Cosa difficile da credere, per noi, dopo 200 anni di ammaestramento giacobino delle masse, durante i quali fu sminuita l’epopea cavalleresca, simbolo dell’aristocrazia feudale, ed il contributo da essa generosamente offerto per la salvezza della parte umile della popolazione. La storiografia liberale preferì mettere l’accento, e dunque tramandare ai posteri, soltanto le angherie dei signori feudali, tralasciando però che esse furono piccola cosa dinanzi a quelle che si sarebbero registrate a partire dal XIX secolo. Charles Dickens, il miglior talento letterario del tempo, e che visse sulla propria pelle l’atrocità del nuovo ordine borghese industriale, nei suoi romanzi ritrae i personaggi appartenenti all’antico lignaggio come figure ridicole, caricature del loro glorioso passato. In questi affreschi letterari vi è l’intrinseco rimpianto per la nobiltà feudale non più in grado di restare salda al potere: travolta dalle innovazioni tecnologiche in dotazione agli arricchiti, grazie alle quali avevano acquisito titoli e beni degli antichi casati, e modificato le leggi a loro piacimento.

Per inciso, almeno in occidente ed in tutte le sue civiltà, dalla Grecia all’Impero Romano e in tutti i regni dell’Europa medievale, l’aristocrazia aveva sempre rappresentato il vero ceto medio perché classe adusa a mitigare il potere regio, onde evitare che potesse tramutarsi in tirannide, e ad evitare che le masse popolari, humiliores e tenuiores, periodicamente sobillati dai ceti dell’antica borghesia, fomentassero disordini sfocianti nell’anarchia.

E questo perché la stessa aristocrazia comprendeva in sé caratteristiche proprie di base e vertice della piramide sociale degli antichi regni; quali la forza numerica, seconda solo al popolo e i poteri politici, secondi solo a quelli regi, ragion per cui tendeva a bilanciarsi fisiologicamente da se stessa. Ma sulla Terra come ovvio due sono le caratteristiche principali, comuni a tutti gli esseri: l’imperfezione e la caducità, alle quali non sfuggivano ovviamente neanche i membri dell’aristocrazia.

La sua classica e naturale degenerazione, denunciata già da Cicerone nel De Republica, consisteva nel tramutarsi in oligarchia; ma è proprio questa pecca a connotare i tempi; infatti, per ciò che concerne la formazione e l’operato delle aristocrazie antiche, fondate sul ferro e l’aratro, si registrò un abbrutimento molto meno accentuato e soprattutto sporadico, nei secoli che precedettero la rivoluzione industriale, quando vigeva l’equilibrio tra le classi, (attenzione, non bilanciamento!) dettato più che altro dalla parsimonia di una civiltà che viveva dell’essenziale. Questo equilibrio venne spazzato via dalla politica sorta sulle barricate parigine nelle rivoluzioni del 1789 e 1840, dalla tecnica dei motori a vapore e più tardi a scoppio, in grado di produrre “Tonnellate di merci superflue e inutili, a riempire le vetrine dei negozi”. Come ebbe a dire William Morris, altro autore britannico in contrasto sia col marxismo che con il liberismo, in “Commercio”.

Il dato di fatto acquisito fu che al tramonto del XIX secolo nacque il consumismo, il dogma del nuovo ceto dominante, produttivo e commerciale, e con esso la nuova aristocrazia, quella del denaro, portata fin da subito a formare oligarchie feroci, imbevute di fanatico calvinismo che aveva già da tre secoli rivoltato totalmente il messaggio evangelico. Non più gli ultimi saranno i primi, ma l’esatto opposto, perché se non hai successo nella vita terrena è giusto non avere in premio il Paradiso.

Dinanzi a questo cambio di paradigma i tradizionalisti rimasero sconcertati; ancora più quando sopraggiunsero le soluzioni estreme, ideate dal materialismo marxista, agli squilibri salariali e sociali prodotti dalla nuova aristocrazia-oligarchia industriale, ovverosia: tabula rasa di tutto il passato, nel solco scavato già dai massoni giacobini, intesi a ricostruire il mondo secondo progetti panteistici di ispirazione gnostico-idealista. (Pensiamo agli illuminati di Baviera).

A questa irruzione immanentista, che eliminava la dimensione verticale lasciando ai destini dell’uomo esclusivamente proiezioni orizzontali quali l’arricchimento per arricchimento degli oligarchi, ovvero l’azzeramento delle classi e con essa anche il livellamento delle cime, le specificità di cui sopra, rispose la lettera enciclica di Leone XIII………….Continua.

Tratto da:Onda Lucana by Ivan Larotonda

Immagine di copertina tratta da Web:

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