Mantenere le aspettative

Quando andavo alle scuole medie, io ero un essere perfetto. Non ero mosso da nessuna forma di volontà e i miei bisogni erano minimi, praticamente erano bisogni fisiologici. (Non so perché scrivo scuole medie, come se fossero tante, in realtà io di scuole medie ne frequentai una sola ed oggi quell’edificio dove le frequentai è chiuso. Ci cresce l’erbaccia. Chissà che belle piante ci saranno ormai nelle aule, vicino alle finestre!).
Passavo anche per essere un ragazzo intelligente, alla scuola media, questo perché, probabilmente, nelle prime lezioni di italiano avevo detto come senza saperlo e a parole mie che cosa voleva dire una strofa, forse il ritornello, stampato sul retro del nostro libro di antologia, della canzone L’isola che non c’è di Bennato.
Voleva solo dire che quell’isola non c’era. Che magari ci fosse stata… ma non c’era.

Il mio compito, quello che il mio corpo sentiva come suo compito (la mia mente non esisteva e non sentiva nulla), fu quello di smentire la professoressa di italiano nei successivi tre anni. Mi riuscì fino alla fine del terzo anno: purtroppo, nel secondo quadrimestre del terzo anno, forse perché mi scrissero che ero destinato alle scuole professionali e mio padre me le suonò di santa ragione con la cintura dei suoi silenzi sghignazzanti e dei suoi sguardi soddisfatti di avere un figlio muratore da scorticare in cantiere, decisi di dimostrare che potevo andare dove volevo. E lo dimostrai alla grande, impennando nei voti fino a pareggiare quelli del primo della classe, tanto che all’ultimo dissero ai miei genitori: “può iscriversi dove vuole, se lo vuole”.
E io lo volli.
Pensavo fosse una ribellione. Ma non era affatto una ribellione. Ribellarsi è un’altra cosa.
Fu lì, lo capisco solo oggi, che il mio genio, la mia perfezione si vaporizzarono, meschine, e divenni un giovane di talento come se ne trovano dappertutto, magari anche nelle scuole di scrittura creativa.

Un giorno, quando ero ancora perfetto, un insegnante, quello di matematica, chiamandomi all’interrogazione e mettendomi a tu per tu con la lavagna, disse “Guardatelo come gli fuma il cervello”. Pensai che mi pigliasse per culo ma non era affatto così. Era serio. Si aspettava delle cose da me e questo è il peggio che possa capitare ad un essere umano. Creare aspettative. E soprattutto: mantenere le aspettative.
Il mio cervello però non solo non fumava, non andava nemmeno in fumo come mi sono rassegnato a farlo andare oggi: allora il mio cervello, come ho già detto, non c’era, non esisteva proprio e feci una figura ignobile, dimostrando di non saper fare nemmeno le operazioni di base. Solo i numeri negativi mi sarebbero piaciuti, ma bisognava aspettare ancora qualche altro anno. Bisognava aspettare che un cervello mi nascesse.

Un altro giorno, il professore di ginnastica ci mise in fila davanti alla sua cattedra. La sua cattedra si trovava in uno stanzino prima della palestra, attiguo allo spogliatoio. Lì ci teneva alla maniera militare per almeno dieci minuti. Sproloquiava su qualsiasi argomento. Noi dovevamo fare i soldati sennò non ci era permesso di andare in palestra. Delle volte pur facendo i soldati, il professore era talmente preso dalle sue elucubrazioni sportive, era talmente felice di specchiarsi nelle sue belle parole vuote che l’ora passava e non ci restava altro che tornare nello spogliatoio e ricambiarci, perfettamente asciutti.
Io non sapevo allacciarmi le scarpe. Me le allacciava quel cuore buono della bidella Candida per evitare che uscissi sempre per ultimo e venissi sgridato dal professore. La bidella era vecchia e portava la soma di un seno gigantesco che non le permetteva di vedersi i piedi da sola. Capiva quindi perfettamente come soffrissi a non sapere mai se avevo le scarpe allacciate bene o no. Cadevo dappertutto. Cadeva anche lei, o barcollava. Era tutta una risata tra di noi.
Quel giorno, il professore ci disse che c’era una scelta da fare: voleva fare assieme a noi l’orario visto che si era passati dall’ora da sessanta minuti a quella da cinquanta (eh, le direttive ministeriali!). Dovevamo ragionare su che cosa fosse stato meglio, se fare due ore da cinquanta minuti attaccate in un solo giorno oppure due in due giorni staccati, con il rischio di ridurre la lezione a nemmeno trenta minuti (la classe da spostare, il tempo dello spogliatoio).
Nessuno diceva niente allora non so perché il mio corpo alzò il braccio.
Voleva parlare.
“Ah, bene”, disse il professore, e con la faccia voleva dire che stavo per fare una osservazione intelligente, visto che io ero intelligente. Si aspettava delle cose da me. L’osservazione intelligente era naturalmente essere d’accordo con lui. Avevo il cinquanta per cento delle possibilità ma io non sapevo nemmeno questo.
Dissi che era meglio fare due ore attaccate.
Gli altri, essendo perfetti come me, senza pensarci un secondo, dissero che avevo ragione.
Il professore si accigliò e mi disse “Allora non sei intelligente per niente”. “Ma tu preferisci mangiare un po’ di spaghetti tutti i giorni o un pentolone di spaghetti ogni tanto?”.
Io ero talmente scemo che dissi che gli spaghetti non mi piacevano.
Fui spedito a cambiarmi e gli altri che mi avevano dato ragione in parte ritrattarono in parte furono rispediti nello spogliatoio assieme a me.
Uno mi voleva menare perché per colpa mia non avevamo fatto ginnastica. Io gli dissi senza pensarci nemmeno “Perché non hai ritrattato pure tu?” e quello disse “Ma che cazzo me ne frega degli spaghetti a me, io volevo giocare a pallone”.
Facemmo pace.
Ora avevo un solo problema: che la bidella Candida non c’era e non sapevo come fare con le scarpe. Nel dubbio rimasi in tuta.
Ero sereno.
Sembravo un animaletto.
Perfetto.

Oggi che dài e dài ho imparato ad allacciarmi e slacciarmi le scarpe a mio piacimento e che tuttosommato gli spaghetti mi piacciono, soprattutto in bianco, con l’olio e il peperoncino e un pizzico di pan grattato, mi chiedo che cosa ci ho guadagnato.
Risposta: nulla.


Immagine:
Mario Cresci,
Salandra-Matera, 1982


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