Sono passati ormai due anni dall’approvazione della “seconda fase” della riforma Franceschini, e ben quattro dall’avvio dei primi provvedimenti che dettero avvio al riassetto del Ministero, separando le funzioni di tutela da quelle di valorizzazione, con la creazione dei Musei Autonomi e dei Poli Museali Regionali, afferenti a una nuova Direzione Generale dedicata. Alla luce di quanto verificato nel corso di questi anni è dunque possibile formulare alcune riflessioni sui suoi effetti nell’ambito dell’archeologia che oggi si ritrova senza una rappresentanza istituzionale qualificata e specifica a livello di tutela nell’ambito delle diverse strutture centrali e periferiche del Ministero.
La valutazione non è positiva, soprattutto nell’ambito degli uffici preposti alla tutela, in quanto si registra un depotenziamento della capacità operativa sostanzialmente derivante da:
– Mancanza di un modello organizzativo interno che tenga in debita considerazione le specializzazioni, a partire, nelle Soprintendenze, dall’attribuzione delle pratiche, che attualmente tendono a essere assegnate, al di là delle competenze, prevalentemente ai funzionari architetti.
Questo consegue alla sostanziale interpretazione della riforma come “incorporazione” delle soprintendenze archeologiche e storico artistiche in quelle architettoniche, che hanno quindi continuato a operare in continuità con i modelli organizzativi precedenti. I problemi di attribuzione della pratica, con conseguenti ritardi o addirittura omissioni nell’attribuzione ai funzionari archeologi, come riconosciuto dalla recente circolare n. 26/2018 della DG ABAP, sono alla base di una minore incisività nella tutela archeologica tanto da registrare una riduzione del numero degli scavi per archeologia preventiva e d’emergenza. Sono necessarie regole certe finalizzate a chiarire riti e procedure amministrative tra competenze diverse.
– La nuova area funzionale Archeologia, che assorbe i compiti delle preesistenti Soprintendenze di settore, si trova quasi ubiquamente priva delle strutture di supporto, sia in termini di sostegno tecnico (uffici tecnici dedicati) sia relativamente agli aspetti scientifici (biblioteche, laboratori di restauro, fotografici e grafici), senza contare la perdurante emergenza relativa ad archivi e depositi, tutti strumenti di lavoro insostituibili per l’ordinario esercizio della tutela archeologica, per la quale la conoscenza e la conservazione dei beni sono indispensabili. Va aperto un confronto per l’utilizzo congiunto delle strutture esistenti, attualmente smembrate tra Poli e Soprintendenze, sul loro eventuale potenziamento o incremento, coscienti che nessun progetto di riorganizzazione può essere attuato a costo zero.
Particolarmente delicato il tema degli archivi, per i quali si pone il problema pressante dell’accessibilità (che dovrebbe essere garantita quanto meno in base alle norme che regolano l’archeologia preventiva) e la necessità di difenderne l’unitarietà, garantita dalle norme di primo livello ma messa in discussione dalle recenti disposizioni della DG Archivi. Risulta evidente peraltro che lo squilibrio numerico tra archeologi/storici dell’arte, da un lato, e architetti dall’altro, non consente di adempiere alla forma di tutela “olistica” immaginata e alla base della fase 2 della riforma.
– Un ulteriore aspetto riguarda il destino dei musei archeologici. Con la separazione dei Musei dalle Soprintendenze, i Musei Archeologici Nazionali e le aree archeologiche strutturate hanno perso in molti casi il contatto organico con il territorio e gli scavi.
Per quanto oggigiorno molto si parli di musei multiculturali e con una visione di aperture internazionale, non possiamo non considerare come i musei archeologici (Nazionali, ma anche Civici) costituiscano il naturale riferimento espositivo degli scavi condotti nelle città e sui territori nei quali si trovano a operare e il collegamento dei musei con il loro territorio rientri tra gli obiettivi generali indicati dal Ministero nella gestione dei musei. Attualmente una non chiara definizione dei ruoli, delle competenze e dei processi decisionali e attuativi, per e sul territorio, rischia di creare un diaframma sempre più netto tra tutela e valorizzazione, la cui ovvia e legittima sovrapposizione in taluni casi è lasciata alla sola iniziativa e “buona volontà” dei funzionari che lavorano nei diversi Istituti, piuttosto che a legittime e codificate procedure interne al Ministero.
Inoltre, il passaggio di alcune aree archeologiche e musei ai Poli Museali e, di contro, il permanere alla competenza delle Soprintendenze di numerosissimi aree e monumenti archeologici sparsi sul territorio, non strutturati in parchi veri e propri e quindi, inevitabilmente non destinati a un vero e proprio programma di valorizzazione, ne rende le sorti ancora più incerte anche per la scarsità di risorse per la manutenzione e il restauro, creando inevitabilmente il delinearsi di luoghi di cultura di serie A e B.
Permane la sensazione di una forte contraddizione tra l’intento unificatore della riforma, per meglio rispondere alle esigenze del territorio, e la scelta di separare gli istituti di tutela e valorizzazione. Una capacità di intervento globale può partire solo da una forte connessione tra tutti gli elementi della filiera: conoscenza, ricerca, tutela, conservazione, valorizzazione e gestione.
Si ritiene quindi utile avviare un confronto che porti a tale visione globale e che possa anche prendere in considerazione la riconnessione delle competenze di tutela e valorizzazione per quei musei e aree archeologiche non autonomi ora inseriti in Poli museali estremamente eterogenei.
– Queste oggettive disorganizzazioni hanno, inoltre, incisive e drammatiche ricadute sulla componente professionale privata – in forma di libera professione o organizzata in impresa – che dalla corretta e diligente gestione di tutela, ricerca e valorizzazione in buona parte dipende e che negli anni ha svolto notevoli investimenti in formazione e tecnologie. Infatti, come anticipato, da un lato la minore incisività nella tutela archeologica registra una riduzione del numero degli scavi per archeologia preventiva e d’emergenza, dall’altro i musei di serie B non ricevendo adeguate, o per nulla, sovvenzioni, sono costretti a ridurre, nei casi fortunati, o cancellare del tutto attività di ricerca, promozione e valorizzazione adeguate, campi in cui i soggetti privati hanno ampiamente apportato negli anni il proprio contributo.
– La recente pubblicazione del D.M. 154/2017 sulla qualificazione degli operatori economici abilitati ad eseguire i lavori sui BBCC tutelati, ha portato nuovamente in evidenza il grave ed ormai annoso problema della mancata pubblicazione del regolamento attuativo della legge 110/2014 riguardante, fra gli altri, il profilo professionale e formativo degli archeologi e la tenuta del relativo elenco presso il MiBACT.
Preso atto dell’ampia consultazione effettuata al riguardo dal MiBACT e durata più di due anni, con la partecipazione di tutte le associazioni di categoria, di impresa e delle consulte universitarie, si chiede, vista l’urgenza di dare una regolamentazione al settore, che venga emanato il relativo Decreto, il cui iter amministrativo è ormai concluso, essendo intervenuta anche l’approvazione del MIUR.
La pubblicazione del decreto garantirebbe chiarezza sugli inquadramenti professionali del personale operante nel settore e risolverebbe molte conflittualità che attualmente si registrano sempre più frequentemente sia nelle attività ordinarie che negli appalti pubblici.
Le Associazioni
API – Archeologi Pubblico Impiego MiBACT
ARCHEOIMPRESE
ASSOTECNICI – Associazione Nazionale dei Tecnici per il Patrimonio Culturale
CIA – Confederazione Italiana Archeologi
CNA coordinamento archeologi
CNAP – Confederazione nazionale Archeologi Professionisti
FAP – Federazione Archeologi Professionisti
Mi Riconosci? Sono un Professionista dei Beni Culturali
LEGACOOP Produzione e Servizi
Fonte:https://emergenzacultura.org/2018/06/12/per-un-futuro-allarcheologia-italiana-2/
L’ha ribloggato su Pina Chidichimo.