Sagra
Tratto da:Onda Lucana by Ivan Larotonda
Passate le festività tipicamente estive, quelle per dire legate ai Santi patroni (a loro volta originatesi dai culti pre-cristiani per la fine dei raccolti di cereali) immancabilmente si ripresentano le sagre. Non c’è comune che ne sia immune (la rima è involontaria, ma la lascio lo stesso), ovunque si celebrano riti laici in favore di zucche (e non si sa se per onorare le cucurbitacee o quelle, in via di svuotamento totale, degli italiani), peperoni, fagioli, pesche, noci, castagne, patate, uva…
E poi una infinità di derivati da questi, come le miriadi di piatti “tipici”, tra i quali sovente vedo affacciarsi negli “stands” (perché dopo il 1945 anche l’inglese è diventato tipico di queste terre) il castagnaccio fatto con cacao impastato alle castagne. Spiegano, gli “eruditi della sagra” di una determinata area o paesello che esso risale all’età “federiciana”; e magari di Federico II ne avranno udito l’eco simile alla radiazione di fondo, come a dire che l’imperatore non vi ha mai messo piede.
In altre parti ti spiegano, con ben più “fondate” tesi, che esso è “oraziano”. O ancora è “templare” o non so bene di quale altro ordine militare-religioso o affiliazione politica, in altri contesti municipali in cui non sanno proprio dove appigliarsi pur di dire, come la celebre Sofia nazionale alcuni anni fa: «Accattatëvill!». Mai nessuno che sappia rispondere a questo: se richiamate epoche in cui il cacao, almeno i lucani, non sapevano nemmeno cosa fosse, perché affibbiate altisonanti epiteti? Ovviamente gli esempi sul castagnaccio sono un parossismo sulla deriva che è stata presa negli ultimi anni a proposito della promozione dei prodotti del territorio.
Di strafalcioni ne ho visti e uditi molti altri e ancor peggiori; a mio modestissimo modo di vedere il discrimine resta quello legato alla onestà, e non mi riferisco ai codici penali o civili, quella è roba da azzeccagarbugli. Per onestà intendo la sincerità delle azioni sociali; il saper diffondere un’idea, un progetto, e tutto questo deve partire innanzitutto dal rispetto delle persone e dei prodotti. Non si possono cercare fondi pubblici (tipo quelli europei, che poi tali non sono perché si tratta sempre di denaro uscito dalle tasche degli italiani e poi dopo un giro a Bruxelles tornano in Patria onde poter far esclamare ai partiti: W l’Europa!), per mettere i camioncini per strada e dire di aver contribuito alla valorizzazione del territorio.
Erano onesti, per intenderci, nelle feste di partito di una volta, quando si mangiava e beveva con roba davvero locale, ma senza strombazzare di origini marziane pur di far accrescere il prestigio degli organizzatori, e soprattutto i prezzi. E non ci si preoccupava se faceva capolino una coca in bottiglia oppure una birra straniera, o ancora qualche polpetta schiacciata dentro una rosetta e spacciata per hamburger.
Per queste sagre in cui la politica la faceva il lambrusco era comunque lodevole l’impegno degli organizzatori, quello che più inteneriva, che rendeva solide le comunità, erano le marce tutti insieme verso un obiettivo comune. La comunità nasce anche da questo stare insieme, a tavola, come i guerrieri prima dello scontro, o nei matrimoni, laddove interi villaggi partecipavano allegramente a un evento che auspicava l’aumento dei membri della comunità. Senza ipocrisia, fini reconditi, tutto alla luce del Sole, si fondavano e fondevano le stirpi. Quel che voglio dire, in conclusione, è che la sagra dev’essere onorata, perché dietro un piatto c’è molto di più del semplice condimento.
La storia di un popolo si legge su molteplici registri, non va banalizzata giustificandosi col dire che altrimenti si sarebbero persi i fondi e allora non sapendo che cavolo inventarsi si mettono in scena cose al limite dell’imbarazzo, come certe parate definite pomposamente “medievali” e che tutto narrano fuorché un periodo storico lunghissimo, e non si capisce l’attinenza di costumi rinascimentali in parate che hanno l’ardire di ricostruire il ‘300!
La cultura è questo, affastellamento di esperienze maturate nel corso dei secoli, i fagioli sono oramai tipici, come i pomodori, della terra lucana; i primi delle aree interne, i secondi di quelle sfocianti nell’Apulia. Ma entrambi non sono originari dell’Italia e nemmeno del Mediterraneo; per cui della pasta e fagioli, condita con sugo di pomodori, facciamone pure cento di sagre, ma non tiriamo in mezzo ricordi oraziani o Manfredi di Svevia. Che sia buona possiamo dirlo noi, non scomodiamo i grandi del passato.
Tratto da:Onda Lucana by Ivan Larotonda