UNA NOTTE POP

Versione integrale

Tratto da:Onda Lucana by Ivan Larotonda

Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio;

Scriveva Orazio a Cesare Augusto, l’imperatore. I maestri greci con le arti avevano vinto i rudi romani, i conquistatori politici e militari della balcanica penisola delle Muse. E l’Italia non solo trasse beneficio dalla civiltà ellenica ma, fondendola con la sua peculiare, diremmo professionale, struttura giuridico-amministrativa, la esportò ai quattro angoli del suo impero. La lettura di queste antiche lettere, che la notte rende ancora più apprezzabile perché tacciono i rombi di motori cari a Marinetti, comunque e purtroppo si interrompe, e bruscamente, nel momento in cui odo urla di furore bacchico provenire da sotto casa mia. Riposto il volume delle Epistulaecorro a vedere di cosa si tratta. Affacciato alla finestra scorgo in strada un gruppo di giovinastri dai pantaloni strappati, braccia scarabocchiate, chiodi infissi nel labbro e capelli rasati a metà. Paiono zombie; ciascuno di loro con una mano brandisce un telefono e con l’altra una bottiglia di birra, conversano all’uso odierno, ossia urlando, su dove andare a ubriacarsi l’indomani, come se non fosse ancora abbastanza quello che stanno già facendo. In ultimo aggiungo, per la gioia dei post-modernisti al potere, che in quell’accozzaglia di gente i sessi non si riconoscono più. Eppure, mi chiedo, è quasi l’una di notte, quando la finiranno? Ma che sbadato, me ne sono dimenticato! E’ estate, la gioventù ha il diritto-dovere di rompere i coglioni, soprattutto questa, la gioventù figlia della “civiltà” Pop!

Ebbene sì, che le persone adulte parlino male di quelle irrazionali, leggi giovanili, è ormai cosa nota, una regola di tutte le epoche: Non si è mai soddisfatti delle generazioni successive, le si vorrebbe identiche alle vecchie, a quelle dei “tromboni”! Immagino lo stesso abbiano detto i sanfedisti a riguardo dei giacobini, i quali portavano i pantaloni lunghi fino alle scarpe mentre i primi indossavano le bragae, che terminavano  alle ginocchia. E che dire dei capelloni anni ’60? Fatte queste osservazioni, e ormai irrimediabilmente innervosito dalla caciara, smetto di leggere. Di prender sonno non se ne parla proprio, e dunque decido per il gesto estremo di accendere la tivvù, salvo poi immediatamente pentirmi a seguito di una folgorazione oserei dire damascena: Il caos evita la riflessione! Inconsciamente ho acceso il televisore solo per coprire con altri suoni i rumori dei giovinastri “gender”, col risultato finale di rendermi anch’io partecipe dello svuotamento dell’esistenza! Cerco di rimediare all’horror vacui scegliendo almeno un programma decente, che mi faccia perdere un numero di neuroni inferiore alla media di quelli che se ne vanno via guardando la televisione. Macché! Peggio, da un canale all’altro una sequela di cretinate made in USA si affastellano una sull’altra, negli eterei spazi, captate da antenne cinesi e trasformate in immagini da televisori anch’essi cinesi, ma fabbricati in Tailandia da operai bengalesi tenuti a cottimo da assemblatori di programmi coreani. Spengo, non prima di aver dato un’occhiata ai tg, a vedere i prodigi del capitalismo occidentale, al suo “umanesimo” che raccatta “negri” da esportare in Europa per la gioia di chi ci guadagna sopra i 35 euro al giorno a testa. Una volta spenta quella rottura di palle scopro, con enorme piacere, che la folla “gender” di cui sopra è andata via. La notte di Valpurga è finita. Affacciato al balcone di casa finalmente il silenzio, accompagnato dall’eterno frinire del grillo. In quest’istante tiro le somme di quanto ho vissuto nella notte, e l’unica cosa che mi viene in mente è: com’è brutto perdere una guerra! Dopo tante stragi compiute dalla stoltezza dei nostri connazionali, dai barbari tedeschi e alleati; milioni di morti e poi settant’anni di “civiltà” angloamericana. Ecco il prodotto finale: la “civiltà” pop! Il transeunte fattosi dogma! Tutto cambia, scorre, corre. Mentre esci di casa, sicuro delle tue capacità, fiducioso in un prossimo che ti accoglierà, anche in un modo non a te soddisfacente ma almeno consapevole che non ti lascerà indietro, che ti farà sopravvivere; ebbene, niente di tutto ciò, alle tue spalle stanno preparandoti il funerale. Niente è stabile, tutto muta di continuo in quest’epoca eraclitea, del frivolo mondo pop, dove tutto è colori, definiti dagli artefici stessi di questo caos: psichedelici! La classe dirigente attuale ci è stata consegnata dall’LSD consumato nei riti pseudo vedici del ’68, questo è il dramma. Gente allucinata, invidiosa del creato e che per questo tutti i giorni si adopera per costruirne uno nuovo. La porta carraia di Zarathustra è ormai spalancata, non ci vogliono più nemmeno le droghe, il mondo anglosassone è riuscito nell’intento di creare il dimidiato, l’individuo diviso su tutto, scisso anche da se stesso. L’arcobaleno è la sua bandiera, la si vedeva già in Yellow submarine, nient’altro che l’incipit del caos che ne sarebbe derivato, con tutte le implicazioni psichiatriche connesse. Quante tonnellate di spazzatura sono oggi spacciate per arte? Ed io che mi ostino a rappresentare un albero per com’è! Quando i “veri artisti” lo dipingono blu o viola, a seconda del loro umore, o sesso odierno! Perché tutto muta. E’ come le quotazioni in borsa, su e giù. Maledetta guerra! Maledetti poeti maledetti! Maledetti giacobini assassini! Maledetti artisti espressionisti! Maledetto fumo di Satana che scavasti brecce nelle mura leonine consegnandoci un papato che non riconosce più Cristo come Re del Mondo! I trambusti musicali suonati da gente che per la gran parte è morta suicida in seguito a overdose di alcool o droga, sono “civiltà” pop. Le serie televisive o le interminabili soap opera, tutta roba che si ripete stancamente fino al fatidico salto sullo squalo, parossismo della finzione e della realtà che vorrebbero presentare, sono pop. La persecuzione delle identità etniche, la costruzione del mondo coloured tramite la deportazione degli africani in Europa, il cosiddetto melting pot, appartengono tutte alle follie pop. Ecco, invece, cosa significava per i romani vincere una guerra: migliorare se stessi. Per questo accolsero il mondo delle loro origini, quella civiltà ellenica presente a Roma fin dalla sua fondazione. Per rispetto ai loro maestri nessun anfiteatro fu costruito in territorio greco; i sanguinari ludi gladiatori non potevano essere rappresentabili per non turbare la sensibilità greca. Al contrario i vincitori americani, dimentichi della loro origine europea, ne hanno imposto un’altra di civiltà, brutalizzato i popoli con sanzioni economiche e mode assurde. Preteso di fare del vecchio continente un’appendice del mondo d’oltre oceano; imposto a noi, europei, di seguirli fino al precipizio, pur di renderci loro partecipi dello stesso mondo consumista, dominato da banchieri e speculatori. Noi, che avevamo creato lo Stato sociale, siamo stati privati di società e Stato proprio da questa “civiltà” pop che divide gli uomini, o presunti tali, in coloro che vestono una marca piuttosto che un’altra. Laddove il brutto è democraticamente distribuito da architetti che viaggiano in altre dimensioni prima di metter mano ai piani urbanistici; e a cui risponde il rigorismo logico degli ingegneri, i quali spacciano per abitazioni titanici scatoloni di biscotti in cui infilano le famiglie segnate dal destino, anche questo è pop.

Vent’anni fa un’insegnate, ex sessantottina ovviamente, e lo rivendicava con orgoglio, mi confessò di essere un amante del brutto. Che gli piaceva vedere i muri graffitati o le sculture prodotte tramite fiamma ossidrica, bruciate, abrase, scalpellate da mani incerte e figure appena abbozzate. Rabbrividii; ma come, siamo nella terra della cultura classica, che vuol dire perfetta, dunque protesa alla rappresentazione del reale perché in natura esiste la perfezione, forma di Dio, e costei se ne viene con il culto dell’immondizia? Il ’68 segna l’espansione del pop e del brutto democraticamente distribuito, ecco spiegato gli scarabocchi che deturpano i corpi della gioventù odierna. La bellezza classica non è più lo specchio delle anime buone, come insegnavano i greci. A guidare l’odierna gente, dotata di memoria del criceto, sono i fuochi fatui del pop che, guarda caso, scaturiscono dalla decomposizione di organismi; nella fattispecie di quello della nostra civiltà.

Prima di andare finalmente a letto verso dell’acqua minerale in un bicchiere, il gorgoglìo copre i suoni della radiazione di fondo, l’eco della creazione dell’universo. Ho esagerato! Non è il caso di farla tanto grossa; è che nel silenzio notturno il flebile ronzio dell’alta tensione che passa tra i lampioni di fronte casa mia la fa percepire come tale, o meglio, è a me che piace pensarla così. Fatto sta che la pace sopraggiunta, inesorabilmente, riaccende in me ricordi adolescenziali. Sempre tenendo in testa la “cultura” pop, che ho individuato come nemico da combattere, tuttavia ad un tratto la sento anche come inevitabile parte di me stesso: sono nato purtroppo in tale epoca. E allora a cosa sarei affezionato, di appartenente a questa sottospecie di civiltà del consumo? All’uso dei poster in cameretta? Sì, ne avevo anch’io, tutti legati alla mia squadra del cuore, ma ero affezionato ad uno in particolare: il poster del mitico Giampiero Boniperti. Certo, quello dei poster è piena cultura pop, dunque anch’io ne propagandavo i simboli, mentre ora gioco a fare come gli “intellighenti de sinistra”, quei sepolcri imbiancati che pontificano dall’alto delle loro cattedre universitarie una cosa e poi ne fanno un’altra? L’attimo di angoscia però svanisce nel momento in cui rimembro che già a quei tempi i miei miti appartenevano ad un’altra epoca. Il grande attaccante della Juventus era un calciatore dei tempi eroici postbellici, di quegli anni ’50 ancora pregni della vera civiltà italiana, libera ancora per poco dall’invadenza anglosassone ed i suoi costumi frivoli. Si dice che il grande Boniperti si sia fatto pagare con capi di bestiame per la sua fattoria, come premio del primo anno alla Juventus. Al suo confronto i pallonari d’oggi sono solo dei cialtroni pienamente pop; e osano chiedere pure cifre mostruose per prestazioni modeste! Questo mi porta alla scontata conclusione sulla genuinità della civiltà contadina; sì, ma è anche vero che proprio nel mondo agreste si trova comunque e sempre la resistenza ultima a tutte le invasioni: come fecero i contadini vandeani nei confronti della furia giacobina. Se l’Italia possiede ancora, nonostante l’abusivismo creativo-mafioso, i suoi splendidi borghi arroccati sugli speroni rocciosi, lo dobbiamo ad un eroico, vero, atto di resistenza all’invasione straniera, a quella dei goti che fecero fuggire i romei sui monti. Ed è andata bene per 1500 anni questa sistemazione rurale, fino a quando non è intervenuta l’industrializzazione delle città a scacciare da lassù i discendenti degli antichi latini; per poi scoprire che anche questi miraggi industriali erano solo il frutto avvelenato della piena esplosione della civiltà pop: i “favolosi”, per pochi egoisti in realtà, anni ’60. “Il ragazzo della via Gluck”, splendido brano, è nient’altro che la colonna sonora dello spaesamento, dell’inizio della fine per le identità. Intanto da noi, nel meridione, come tutte le cose pure le disgrazie giungevano, e giungono ancora, in ritardo. Nell’area appenninica fu il terremoto del 1980 in Irpinia a decretare la morte definitiva per la civiltà contadina. Prima di allora si continuava a portare il grano al casone del Principe, nel castello di Lagopesole, come se ci fossero ancora Manfredi di Svevia e sua moglie Elena Ducas d’Epiro, o i principi Doria. Tanto lento era il cambiamento che nessuno se ne rendeva conto. Le carrozze senza cavalli, nome poetico inventato dalle generazioni nate nell’800 per le automobili, erano escluse dalle fresche viuzze intagliate tra i caseggiati che si inerpicavano sui costoni montuosi. Eppure, quel 1980 il tridente di Poseidone scosse così forte le nostre lande che non si ricostruì più al modo dei padri. Cocuzzoli piallati onde far spazio a parcheggi per auto, ardite circonvallazioni rivelatesi spesso inutili colate di cemento, e poi gli immancabili scatoloni prefabbricati montati sulle piane alluvionali degli antichi fiumi posti a valle dei borghi, per ricavarvi le aree industriali! In realtà, fatta eccezione per poche eccellenze, dimostratesi nient’altro che una sequela di fallimenti per le casse pubbliche e arricchimenti per i privati. Superfluo aggiungere che dappertutto, a seguito di tale sconquasso tettonico-sociale, gli abitanti erano destinati ad entrare nella categoria “specie in estinzione”. L’emigrazione prese a galoppare più degli anni ’60, i fortunati rimasti furono coloro che riuscirono ad entrare nelle grazie dei locali “baroni” del momento, anche questi effimeri come tutta la civiltà pop, e che ricavarono per i disgraziati disoccupati una serie di corsi detti di formazione (formazione a cosa poi nessuno l’ha mai capito). Fatto sta che l’unica cosa importante per i partecipanti era poter avere qualche liretta in tasca, per poter acquistare stereo e musicassette, una maglietta con su stampate le stelle e le strisce o i pupazzi derivati dai cartoon, o ancora gli ultimi pantaloni blu. Tutta roba che fa ridere i giovinastri odierni, i quali però non si rendono conto che i pargoli nella culla sono pronti a ridere delle loro canzonette singhiozzate, perché in realtà non canta più nessuno. Intanto io, in quei decenni ’80-’90, continuavo il mio estraniamento dalla contemporaneità immergendomi nello studio di chi ci aveva preceduto sulla terra. E questo mi portava ad incantarmi, ad esempio, nel vedere gli avventori dei caffè di paese lisciarsi i baffi alla Umberto mentre tiravano fuori dal gilet l’orologio da taschino, o le ultime anziane, eroiche, che osavano andare in giro coi costumi tradizionali. Le gonne nere dalle mille pieghe a cui facevano contrasto i grembiuli e le maniche a sbuffo, entrambi candidi come neve, come pure i copricapi orlati da vere prove di virtuosismo nell’arte del merletto, trionfo di costumi barocchi…

E’ ormai troppo tardi, ma i conati nostalgici, lungi dal placarsi, mi riportano al tempo dei padri. Dato che i miei ricordi personali, seppure belli, risultano comunque affogati nella suddetta civiltà consumistica anglosassone e questa notte, disgustato dalle risme di banalità usa e getta, non ne voglio più sapere, decido di inserire nel lettore DVD, (pure questo, aimè, ennesimo strumento del progresso pop) uno dei miei film preferiti: “quattro passi tra le nuvole” di Alessandro Blasetti. Un tuffo nell’Italia all’alba della seconda tragedia bellica mondiale, ma impregnato di bucolici e dolci toni degli ultimi tempi di pace. Che narra di quando gli uomini erano cavalieri e le donne erano di una bellezza struggente. Al termine della visione vado a letto, domani mi attende un altro giorno di guerra col mondo contemporaneo, dominato ancora per poco dal capitalismo anglosassone.

Tratto da:Onda Lucana by Ivan Larotonda