Confesso di non avere ancora letto il saggio “Eichmann in Jerusalem – A Report on the Banality of Evil” scritto nel 1963 da Hannah Arendt. Ho deciso che lo farò tra qualche anno. Mi pare che sarà importante farlo allora. E poi per lo scopo di questo scritto è suffficiente ciò che a proposito di questo famosissimo lavoro sanno cani e porci. Di fatto il testo in questione è una sorta di resoconto scritto dall’autrice, nel suo ruolo di inviata del New Yorker, durante il celeberrimo processo al criminale nazista Adolf Eichmann. Eichmann aveva vissuto il suo dorato dopo-guerra in Argentina, ma nel 1960 gli israeliani lo prelevarono, lo portarono in Israele, lo processarono e nel 1962 lo impiccarono.
Dopo l’ultra-chiacchierato processo la conclusione della Harendt, una conclusione a sua volta molto discussa e criticata, fu che il “male” manifestatosi durante l’Olacausto, e azionato in questo caso da buona porta del popolo tedesco, non fosse dovuto alla presenza di un esagerato marciume nell’anima di quei cittadini teutonici, quando piuttosto ad una data ignoranza di fondo, ad una incapacità di comprendere finanche di riflettere sulla negatività etica nel loro agire. La mia conclusione invece è doppia. Da un lato penso che un mondo più accorto – anche in quel di Argentina – avrebbe dovuto portare Eichmann all’impicaggione molto ma molto prima, dall’altro che forse pure il libro della Harendt occorrerà leggerlo prima di quel tempo futuro che avevo immaginato solo un minuto fa, specie perché se dovessi giudicarla solo in virtù di quanto riportato da terzi, dovrei scrivere che questa “teoria” di questa giornalista-filosofa fa acqua da tutte le parti.
Ma questa mia ultima considerazione non è comunque troppo importante in codesto contesto. In verità io penso che il male non sia mai “banale”, non importa la connotazione che si vuole dare al termine, non importa la significazione che si vuole attribuire all’aggettivo, per quanto mi riguarda infatti il “male” è “strumentale”. Ed è “strumentale” non nel senso che serve a raggiungere un fine, uno scopo, ma nel senso che è colonna portante nella struttura che fa da perno alla nostra esistenza fisica. Detto altrimenti per me il “male” è solo consequentia-rerum del nostro avere coscienza in un universo fisico regolato dalle leggi fisiche che conosciamo. Talmente vero è questo status quo che si potrebbe finanche arrivare a teorizzare che in realtà il “male” non esiste, proprio come non esiste il fattore tempo nell’equazione Wheeler-DeWitt. Si può azzardare invece che esistano meccanismi che portano ad estrinsecare dinamiche, comportamenti che noi categorizziamo come il “male”.
Tanto tempo fa una persona che conoscevo e che aveva fatto una breve esperienza come guardia carceraria mi disse con gli occhi ancora incupiti e con una voce caricata di una forza stonata in lei: “Rina: il male esiste!”. Successivamente quello che chiamiamo “il male” mi è capitato anche di vederlo estrinsecarsi con tutte le sue dinamiche più perniciose in contesti molto seri e in altri più seriosi, ma più il tempo passa più convinco che il male in sé non esista (la quale osservazione non fa equazione con il concetto che il male sia banale, piuttosto il contrario). Date dinamiche dolorose sono in verità una necessità per garantirci l’esperienza della vita così come la la sperimentiamo, nella dimensione in cui la sperimentiamo, o sono risultanza delle nostre azioni in quello stesso contesto fisico, mentre gli aspetti che ci sfuggono (quelli che un credente non esiterebbe a chiamare diabolici), pertengono semplicemente al non-visto, al non-ricordato delle storie multiple e complicate (ancora in-progress?) che ha già vissuto la nostra anima.
“Se Dio esiste un giorno mi dovrà chiedere scusa” scrisse un prigioniero di Auschwitz. Questa è una di quelle considerazioni che molto di più del concetto di “banalità del male” può prendere in maniera importante lo spirito, l’anima, la coscienza, l’intelletto di tutti noi. La frase procura finanche la stessa fascinazione che può procurare un enigma difficilissimo, un rompicapo impossibile da risolvere. Vero è che a trattarlo in maniera matter-of-fact, cioè mai lasciando che l’aspetto emozionale prenda il sopravvento, si potrebbe pure argomentare che al momento noi non abbiamo ancora elementi neppure per escludere una “colpa” anche in quel prigioniero. Detto altrimenti, nulla vieta di pensare che potrebbe essere quest’uomo ad essere in debito con una possibile entità sorgente delle cose (quella che lui chiama Dio), e in ultima analisi a dovergli/le chiedere scusa. Il fatto è che non lo sappiamo, ovvero non abbiamo modo di misurare il reale valore-aggiunto di questa possibile logica nascosta e fredda che nel suo manifestarsi in tale modo ci appare “malvagia”. E poi c’é sempre la possibilità che l’esperienza fatta da quel prigioniero non dipenda da alcuna “colpa”, più semplicemente la stessa si è realizzata perché si sono verificate tutte le condizioni affinché si verificasse (che non è uno scioglilingua).
Ma forse anche in questa situazione stiamo guardando appunto a un semplice caso di mera logica strumentale. Di una logica che ha finanche un suo senso evidente. Ne deriva che forse forse la frase corretta che il prigioniero di Auschwitz avrebbe dovuto enunciare sarebbe stata: “Se Dio esiste dovrà darmi molte spiegazioni”. Questo sì metterebbe subito il suo “Dio” all’angolo, perché la mera “spiegazione” è sicuramente dovuta. Come è dovuto il comprendere se una simile, brutale esperienza sia stata scelta direttamene da quell’anima (e da ciascuna anima che ne ha vissuto una simile) per sua personalissima elevazione.
Certo è che anche nel caso di un male strumentale che si alimenta in virtù delle sue dinamiche fondanti, e in genere perniciose, non esclude un momento del redde-rationem. Au contraire lo implica, perché magari uno scopo importante dei nostri viaggi sulla terra è proprio quello di dover raffinare la nostra capacità di resistenza a farci strumenti che alla fine possono “subire” ma soprattutto “infliggere” il male sui propri simili. Visto da questo punto di vista è indubbio che anche l’elemento “banale” teorizzato dalla Arendt si fa automaticamente “peccato” come vuole la stessa logica che nella giurisprudenza declama “Ignorantia juris non excusat”. E il cerchio si chiude. O no?
To be continued…
Rina Brundu