Canto Minimo ovvero quando mi sono sentita orgogliosa di essere lucana.
Il nuovo progetto di Graziano Accinni sui canti devozionali lucani.
di Grazia Ragone
Venerdì, vigilia dell’Immacolata, fa freddo in Lucania.
Alle nove, nella Chiesa Madre di Sant’Arcangelo, suonano Graziano Accinni e Giuseppe Forastiero.
Il chitarrista di Moliterno presenta il progetto “Canto Minimo”, un insieme di brani devozionali antichi della Basilicata, raccolti nel corso di tanti anni di ricerca.
Arrivo giusto in tempo, prendo posto in seconda fila; conosco l’arpeggio di “Lu Rusariu ri Natali”, in dialetto moliternese, recitato durante il periodo pre-natalizio.
Faccio amicizia con la Signora Rosa, una delicata bellezza dai lineamenti dolci e i capelli bianchi, lunghi e lisci. La vedo seguire, con emozione, il canto sulla Madonna di Viggiano, mentre porta il tempo col capo, accompagnando i versi più conosciuti: “Pi mari e pi terra sì nominata tu”. Lo conosce quasi tutto a memoria. Chissà quante volte l’avrà intonato nei pellegrinaggi verso il Santuario di Viggiano, quando il petrolio ancora gorgogliava sotto i sandali polverosi dei camminatori, tanto ignari della ricchezza materiale quanto consci di quella spirituale.
Io ascolto, scrivo e prendo appunti.
“Signori’, siete mancina!”, nota la mia vicina di posto.
Ancora un pezzo moliternese, “O crevu” che “chi lu rici beni n’avi”, appreso da Graziano grazie ad un bibliotecario del suo paese.
Intanto, in chiesa, si crea un alone di confidenza, quasi mistico. Senza divisioni. Tanto che, ormai, la Signora Rosa, sempre lei, la mia vicina di posto, diventa Zia Rosa. Mi fa i complimenti per i capelli “belli lunghi”.
Il cantante, Giuseppe, introduce il brano successivo, “Madonna dell’Alto”. Lo esegue, come al solito: bene.
La Madonna dell’Alto veglia dal Pollino, in una chiesa del 1775, in perfetta solitudine. Un po’ come siamo noi, popolo di Lucania. Soli. Rifiutiamo il caos, pensiamo e pensiamo in silenzio. Mentre, intorno a noi, tutti fanno rumore. Stiamo in silenzio anche di fronte agli abusi subiti dalla nostra terra. Nessuno resta in silenzio meglio di noi.
Anche nella Chiesa Madre, in quel momento, stiamo tutti zitti. A contemplare il canto e le corde della Godin.
Dal Pollino a Tolve mi porta “Evviva Santi Rocco”, protettore del piccolo paese del potentino, uno degli esempi più forti ed importanti della devozione lucana. È un brano imponente, nonostante un Re minore sussurrato.
Mi giro e Zia Ros’ ancora segue il ritmo col capo. Sì, perché il classico “Curra curra a la cappella” lo conosce bene anche lei, un po’ come tutti.
Mi viene in mente la sera in cui conobbi il Maestro Accinni, ad Armento, molti anni fa, in una chiesetta, sempre in occasione di un suo concerto.
E a distanza di tempo, dopo una collaudata collaborazione professionale e amicizia, mi rendo conto di aver imparato tante cose. Innanzitutto, ad osservare.
Guardo attorno.
Accanto a me, si innalza la statua dell’Arcangelo Michele. Un forte legame mi lega a questo Santo, da un po’ di tempo. E penso che nulla è casuale. Pare che l’Arcangelo, il guerriero, si faccia trovare sempre nei momenti più intensi della vita di chi lo prega. Ora, non è che io sia una credente eccellente, anzi, non sono nemmeno tanto credente, in fondo.
Ma nella cultura popolare, sì, credo molto.
E la storia di San Michele con la bilancia, proprio vicino a me, quasi a darmi forza, mi incuriosisce.
Come misteriosa è la storia di “San Canio”.
Il brano, contenuto nell’album “Elettrico Lucano”, narra della costruzione della Cattedrale di Acerenza. Fortemente evocativo, mi emoziona particolarmente, anche grazie ad un’esecuzione impeccabile, una di quelle che ti arriva in pancia, più che al cervello. Probabilmente, “San Canio” è uno dei canti più belli della tradizione devozionale lucana. Basti pensare al verso: “Mo m’anginocchï e mi ven lu chiant”.
Poco dopo, si raggiunge il climax con il “Canto dell’Addolorata di Sant’Arcangelo”. Un gruppo di persone vestite di nero e due chitarristi raggiungono il Maestro. Da quel momento, inizia un opera d’arte di venti minuti. Straziante, riecheggia per tutta la Chiesa il pianto di Maria interpretato dai cantori di Sant’Arcangelo.
Alla mia destra, adesso, c’è una dolcissima, giovane signora di nome Angela. Mi spiega che, di quel canto, vi sono due versioni. Quella che stanno interpretando, in quel momento, è un adattamento della versione originale. Viene intonata durante la rappresentazione itinerante “Via Matris”, la Passione dal punto di vista di Maria, organizzata, da circa cinque anni, a Sant’Arcangelo, in più tappe, durante la Quaresima.
La versione più antica, invece, guida la processione del Venerdì Santo.
Graziano, poi, mi spiegherà che questo è uno dei pochi canti di Passione, forse l’unico, che viene accompagnato solo da chitarre.
L’armonia ricorda molto il Canto di Passione di Stigliano.
Non occorre essere credenti per commuoversi. L’umanizzazione della morte di un Figlio e del dolore della mamma non risente né di contesti temporali, né di collocazioni spaziali e non appartiene a religione alcuna.
Infine, “Madonna di Pollino” e “Madonna di Sirino” concludono il repertorio della serata, dedicate sempre alla figura della Madre, molto presente nella devozione lucana.
Il saluto arriva con il “Frammento”, la preghiera della sera.
Ecco, ho capito perché “Canto minimo”.
Per l’essenzialità.
Non tanto perché ti trovi dinanzi ad un microfono e ad una sola chitarra. Ma come invito a ricercare la sostanza in sé, per ritrovare la radice di tutte le cose, la Madre creatrice dentro noi stessi. L’aggettivo “minimo” rimanda proprio a questo. Liberi da orpelli, da fronzoli. Nel canto, come nella vita.
Penso e sorrido; sì, perché mentre accanto a me canticchia Zia Rosa, con la sua sciarpa di lana consumata, penso alla sfilate ‘pariniane’ della domenica mattina, dopo la Messa nelle mega-cattedrali cittadine. Penso e sorrido; perché ho l’immagine, vista e rivista, delle donnone in pelliccia o col cappotto in cachemire, le collane di perle e la messa in piega che avanzano snob, dopo aver presenziato alla funzione, in una sottile gara del “chi mostra di più”.
Vorrei abbracciare Zia Rosa e lo faccio, alla fine del concerto. Siamo diventate amiche e mi ha dato tanto, anche se ignora il motivo.
Ma Zia Rosa, la sera del sette dicembre 2018, nella Chiesa di Sant’Arcangelo, è il “Canto Minimo”.
E se mi chiedessero di accostare una visione alla musica devozionale di Graziano Accinni, penserei a lei. Alla sua essenzialità, non nel senso francescano del termine. Mi riferisco alla sua libertà interiore ed esteriore, la libertà che è propria della gente pulita ed umile, libera da convenzioni, ruoli sociali ed ipocrite mezze verità.
Ebbene, mi sento orgogliosa di essere lucana e, forse, essere rimasta qui è stata una fortuna, nonostante i silenzi troppo rumorosi, a volte.
Perché in quel piccolo paese, durante un’anonima e gelida serata invernale, noi siamo il popolo raccolto attorno alla propria identità.
Fuori dalla Chiesa, sento una signora chiedere ad un’altra: “Ma tu non ti senti diversa, stasera? Non senti una pace dentro?”.
Sì, Graziano Accinni e Giuseppe Forastiero ci sono riusciti ancora.
Grazia Ragone
Tratto da: Onda Lucana® Press
L’ha ribloggato su Pina Chidichimo.