E se parlassimo tutti la stessa lingua?
Ci sentiamo a disagio di trovarsi davanti a uno straniero con cui è impossibile intendersi anche su cose elementari. La richiesta di un’informazione, il nome di un monumento o la sua paternità, una semplice espressione affettiva producono l’effetto, in frangenti come questi, di mettere in crisi. Ci si guarda sperduti, cercando di spiegarsi con suoni per lo più inarticolati, in cerca di codici, simboli, strumenti capaci, con una specie di magia, di chiarire il messaggio in misura sufficiente.
Il sogno di una lingua comune ha attraversato i secoli: pensiamo all’esperanto. il successo è stato sempre limitato, ristretto a una cerchia sparuta di persone, senza arrivare a risolvere il problema.
Eppure, l’esigenza dell’uomo è comprendere, comunicare e condividere, per cui non si rassegna facilmente al fallimento. Come superare l’ostacolo, evitando le semplificazioni spesso impraticabili (impariamo tutti l’inglese!)?
Oggi ho impartito l’unzione degli infermi a una suora ormai quasi incapace d’intendere e volere (certamente di udire: è praticamente sorda). Sono entrato nella stanza con altre tre suore, tra cui la madre generale e la vicaria. Si sono affrettate a dirmi che avrebbero risposto loro alle formule del rito.
Il miracolo è facilmente prevedibile: suor Anna, la malata, ha mostrato di comprendere bene, e al momento del “Pater” ha pregato insieme a noi.
La lingua comune è la lingua dell’amore: due italiani potrebbero convivere per anni e non capirsi mai, come dimostrano molte confessioni. Persone di diversa nazionalità o portatori di handicap, anche gravi, riescono di frequente a entrare, invece, in empatia perfetta.
Non basta l’esperanto, ci vuole la speranza: la coscienza di un amore espresso da un vocabolario che comunica senza parole.