NATALIS DIES DOMINI
(Seconda Parte)
Tratto da:Onda Lucana®by Ivan Larotonda
La principessa Anastasia viveva sul Palatino ma da sola in quanto suo marito Bassiano, governatore d’Italia per conto di Costantino, aveva tradito l’imperatore per schierarsi dalla parte di Licinio e perciò messo a morte. A far compagnia alla vedova erano rimasti il consueto stuolo di servi che si muovevano tra gli androni vuoti dell’immenso palazzo. Ma all’imbrunire, quando i lumi a olio appesi ai candelabri di bronzo dorato venivano accesi, proiettavano le ombre dei Cesari e degli Antonini sulle pareti affrescate.
E’ palese che tali ambienti abbiano contribuito a convincere la pia Anastasia che era giunto il tempo per una nuova gloria romana: poiché quella politica e delle armi seguiva i labari del fratello, a lei sarebbe spettato il compito di trascenderla nella luce della rivelazione cristiana. Quando, a giungo del 326, Costantino si degnò finalmente di visitare la pur sempre capitale del mondo, trovò che la sorella aveva ricavato una chiesa nell’avancorpo del palazzo imperiale. Dalla pianta cruciforme, il nuovo edificio di culto aveva la peculiarità di trovarsi in linea e al livello superiore della grotta del Lupercal; il mitico ambiente dove Romolo e Remo furono allattati dalla lupa.
L’intento di Anastasia e del vescovo Silvestro, che la seguì in questa impresa, si mostrava chiaramente in continuità con l’azione dell’altra grande Augusta della famiglia imperiale, Elena, la quale aveva già fatto edificare una chiesa sulla grotta-casa di Betlemme. Madre e sorella, di Costantino, avevano deciso di rendere culto imperiale il luogo delle manifestazioni di Cristo. Anastasia, tuttavia, dovette compiere un lavoro ancor più complesso consistente nel sostituire l’Epifania di Romolo, ai pastori dell’arcaico colle Palatino e piana alluvionale del Velabro, con quella di Cristo ai pastori di Betlemme. Ciò spiega la ragione simbolica dell’inglobamento della grotta nella chiesa, in questo modo anche gli spiriti degli antichi fauni, venerati in loco, sarebbero stati scacciati via.
Una volta acquisito l’ambiente epifanico restava da definire la data in cui celebrare la nascita del Salvatore. A questo punto della vicenda però bisogna capire da dove ebbe inizio quella confusione che ancora oggi viene artatamente tenuta in piedi da ambienti intellettualoidi, siano essi filo-mitraici o peggio neo-giacobini fanaticamente ostili ai presepi; tutti accomunati dalla moda ateistica corrente che spiega la data del 25 dicembre come Natale del Sol Invictus. Tutto ha origine dal primo calendario liturgico, redatto da Filocalo nel 336 e detto Depositum Martyrum. In esso è riportata la data VIII Kal. Ian. Natus Christus in Betleem Judae: il 25 dicembre. La stessa data è presente nel calendario civile dello stesso Filocalo ma del 354 d. C. dove è scritto: Natalis (Sol) Invicti.
La compresenza tra i due culti, come anche di tutti i restanti, era ancora forte in ogni angolo dell’Impero di Costantino e dei suoi immediati successori; cosiddetti costantinidi i quali, eccezion fatta per Flavio Giuliano perciò detto l’Apostata, cercarono, saggiamente, la convivenza pacifica tra i cittadini di ogni culto; pur indicando chiaramente che il loro indirizzo era cristiano. Bisognerà attendere Teodosio per farla finita con i culti precristiani e rendere la fede in Gesù Cristo unica religione dello Stato. E’ altamente probabile poi che la venerazione al Sole Invitto ebbe vita così lunga, fino ancora a Teodosio, anche per un’altra ragione; da trovare sempre all’interno della casa imperiale.
Tale culto era stato innalzato al rango di religione unificante dell’Impero da Aureliano, che è stato non solo tra i migliori generali dell’intera storia romana ma anche l’autore dell’ultimo disperato tentativo, per dirla con le parole di Santo Mazzarino, della difesa del vecchio ordinamento statale imperniato sul Senato. Tra gli anni 270-274 d. C. le sue numerose campagne militari salvarono un organismo politico sul punto di disintegrarsi. Nel campo religioso aveva però fatto male i conti, e questo perché probabilmente anche Aureliano ormai non possedeva più l’impronta del prisco romano. In effetti credeva che il culto eroico di Mitra che uccide il toro, simbolo della morte del vecchio anno e dunque resurrezione del Sole che ricomincia la sua risalita al cielo all’indomani del Solstizio d’inverno, avrebbe potuto unire i cittadini dell’impero, (religione, re-ligare, legare tra loro i popoli).
Ma se questo poteva funzionare tra le caserme dove aveva sempre vissuto, nella società civile non attecchiva, e a partire dallo stesso Senato, che dopo tutto restava realmente tradizionalista. E poi lo stesso Sole Invitto aveva già tentato la sua scalata al Palatino con Eliogabalo, il cui nome fa già capire che costui prima di diventare imperatore fu già sacerdote di un culto al Sole. All’epoca, 222 d.C., il nuovo credo finì letteralmente nelle fogne, dove fu scaraventato il corpo esanime del più bizzarro degli imperatori, il siriano Eliogabalo.
Tratto da:Onda Lucana®by Ivan Larotonda
Si ringrazia l’autore per la cortese concessione. Immagine di copertina tratta da Web fornita dall’autore.
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