
UNA NOTTE POP (seconda parte)
Tratto da:Onda Lucana by Ivan Larotonda
Prima di andare finalmente a letto verso dell’acqua minerale in un bicchiere, il gorgoglìo copre i suoni della radiazione di fondo, l’eco della creazione dell’universo. Ho esagerato! Non è il caso di farla tanto grossa; è che nel silenzio notturno il flebile ronzio dell’alta tensione che passa tra i lampioni di fronte casa mia la fa percepire come tale, o meglio, è a me che piace pensarla così. Fatto sta che la pace sopraggiunta, inesorabilmente, riaccende in me ricordi adolescenziali. Sempre tenendo in testa la “cultura” pop, che ho individuato come nemico da combattere, tuttavia ad un tratto la sento anche come inevitabile parte di me stesso: sono nato purtroppo in tale epoca. E allora a cosa sarei affezionato, di appartenente a questa sottospecie di civiltà del consumo?
All’uso dei poster in cameretta? Sì, ne avevo anch’io, tutti legati alla mia squadra del cuore, ma ero affezionato ad uno in particolare: il poster del mitico Giampiero Boniperti. Certo, quello dei poster è piena cultura pop, dunque anch’io ne propagandavo i simboli, mentre ora gioco a fare come gli “intellighenti de sinistra”, quei sepolcri imbiancati che pontificano dall’alto delle loro cattedre universitarie una cosa e poi ne fanno un’altra?
L’attimo di angoscia però svanisce nel momento in cui rimembro che già a quei tempi i miei miti appartenevano ad un’altra epoca. Il grande attaccante della Juventus era un calciatore dei tempi eroici postbellici, di quegli anni ’50 ancora pregni della vera civiltà italiana, libera ancora per poco dall’invadenza anglosassone ed i suoi costumi frivoli. Si dice che il grande Boniperti si sia fatto pagare con capi di bestiame per la sua fattoria, come premio del primo anno alla Juventus. Al suo confronto i pallonari d’oggi sono solo dei bamboccioni pienamente pop; e osano chiedere pure cifre mostruose per prestazioni modeste!
Questo mi porta alla scontata conclusione sulla genuinità della civiltà contadina; sì, ma è anche vero che proprio nel mondo agreste si trova comunque e sempre la resistenza ultima a tutte le invasioni: come fecero i contadini vandeani nei confronti della furia giacobina. Se l’Italia possiede ancora, nonostante l’abusivismo creativo-mafioso, i suoi splendidi borghi arroccati sugli speroni rocciosi, lo dobbiamo ad un eroico, vero, atto di resistenza all’invasione straniera, a quella dei goti che fecero fuggire i romei sui monti.
Ed è andata bene per 1500 anni questa sistemazione rurale, fino a quando non è intervenuta l’industrializzazione delle città a scacciare da lassù i discendenti degli antichi latini; per poi scoprire che anche questi miraggi industriali erano solo il frutto avvelenato della piena esplosione della civiltà pop: i “favolosi”, per pochi egoisti in realtà, anni ’60. “Il ragazzo della via Gluck”, splendido brano, è nient’altro che la colonna sonora dello spaesamento, dell’inizio della fine per le identità. Intanto da noi, nel meridione, come tutte le cose pure le disgrazie giungevano, e giungono ancora, in ritardo. Nell’area appenninica fu il terremoto del 1980 in Irpinia a decretare la morte definitiva per la civiltà contadina. Prima di allora si continuava a portare il grano al casone del Principe, nel castello di Lagopesole, come se ci fossero ancora Manfredi di Svevia e sua moglie Elena Ducas d’Epiro, o i principi Doria. Tanto lento era il cambiamento che nessuno se ne rendeva conto.
Le carrozze senza cavalli, nome poetico inventato dalle generazioni nate nell’800 per le automobili, erano escluse dalle fresche viuzze intagliate tra i caseggiati che si inerpicavano sui costoni montuosi. Eppure, quel 1980 il tridente di Poseidone scosse così forte le nostre lande che non si ricostruì più al modo dei padri. Cocuzzoli piallati onde far spazio a parcheggi per auto, ardite circonvallazioni rivelatesi spesso inutili colate di cemento, e poi gli immancabili scatoloni prefabbricati montati sulle piane alluvionali degli antichi fiumi posti a valle dei borghi, per ricavarvi le aree industriali! In realtà, fatta eccezione per poche eccellenze, dimostratesi nient’altro che una sequela di fallimenti per le casse pubbliche e arricchimenti per i privati. Superfluo aggiungere che dappertutto, a seguito di tale sconquasso tettonico-sociale, gli abitanti erano destinati ad entrare nella categoria “specie in estinzione”.
L’emigrazione prese a galoppare più degli anni ’60, i fortunati rimasti furono coloro che riuscirono ad entrare nelle grazie dei locali “baroni” del momento, anche questi effimeri come tutta la civiltà pop, e che ricavarono per i disgraziati disoccupati una serie di corsi detti di formazione (formazione a cosa poi nessuno l’ha mai capito). Fatto sta che l’unica cosa importante per i partecipanti era poter avere qualche liretta in tasca, per poter acquistare stereo e musicassette, una maglietta con su stampate le stelle e le strisce o i pupazzi derivati dai cartoon, o ancora gli ultimi pantaloni blu.
Tutta roba che fa ridere i giovinastri odierni, i quali però non si rendono conto che i pargoli nella culla sono pronti a ridere delle loro canzonette singhiozzate, perché in realtà non canta più nessuno. Intanto io, in quei decenni ’80-’90, continuavo il mio estraniamento dalla contemporaneità immergendomi nello studio di chi ci aveva preceduto sulla terra. E questo mi portava ad incantarmi, ad esempio, nel vedere gli avventori dei caffè di paese lisciarsi i baffi alla Umberto mentre tiravano fuori dal gilet l’orologio da taschino, o le ultime anziane, eroiche, che osavano andare in giro coi costumi tradizionali. Le gonne nere dalle mille pieghe a cui facevano contrasto i grembiuli e le maniche a sbuffo, entrambi candidi come neve, come pure i copricapi orlati da vere prove di virtuosismo nell’arte del merletto, trionfo di costumi barocchi…
E’ ormai troppo tardi, ma i conati nostalgici, lungi dal placarsi, mi riportano al tempo dei padri. Dato che i miei ricordi personali, seppure belli, risultano comunque affogati nella suddetta civiltà consumistica anglosassone e questa notte, disgustato dalle risme di banalità usa e getta, non ne voglio più sapere, decido di inserire nel lettore DVD, (pure questo, aimè, ennesimo strumento del progresso pop) uno dei miei film preferiti: “Quattro passi tra le nuvole” di Alessandro Blasetti. Un tuffo nell’Italia all’alba della seconda tragedia bellica mondiale, ma impregnato di bucolici e dolci toni degli ultimi tempi di pace. Che narra di quando gli uomini erano cavalieri e le donne erano di una bellezza struggente. Al termine della visione vado a letto, domani mi attende un altro giorno di guerra col mondo contemporaneo, dominato ancora per poco dal capitalismo anglosassone.
(Articolo dell’anno 2017).
Tratto da:Onda Lucana by Ivan Larotonda