Still Vulture
Tratto da:Onda Lucana®by Ivan Larotonda
106 anni di ruote mosse dalle gambe, di alzate sul sellino su per i monti che non finiscono mai o incurvati sul telaio in spericolate discese, tutto su e giù per l’Italia, che sia rurale o industriale, pigra o dinamica; cittadina, ma soprattutto provinciale. Ossia quella parte arcaica, e perciò sublime, incastonata fra le giogaie di montagne impervie, popolata da un’umanità che disprezza il borghese in panciotto seduto al caffè cittadino. Eppure fu proprio in quest’ambito, parigino o milanese che fosse, ad originarsi il sogno di recuperare la provincia. Il luogo della memoria, del feudo e del cavalleresco che ivi si cela come genius loci.
Ma le strade di queste periferie, che la modernità innalzata sulla produzione di massa, rivendicazione operaia e capitalismo plus lavorista, aveva allontanato dalla città, dovevano essere recuperate. La nostalgia anelava all’Arcadia e allora via dalle lugubri ciminiere che annerivano i mattoni rossi di cui erano fatte; e allora si decise cha la fuga si doveva fare su due ruote, perché come mezzo il prodigio tecnico della bici.
Una tipica invenzione cittadina che però, lungi dall’annullare l’uomo, ne esaltò l’agonismo. Gli eroismi, le cadute, la fatica estratta dal sudore fanno di cuori spremuti il modo per elevare lo spirito. Non mancano però le catene che si inceppano e le ruote bucate, nonostante le brecce siano oramai sepolte nel bitume, ad annullare fughe spaziotemporali, sprofondando così nella desolazione più profonda l’ardito corridore. Tutto è come ai primi anni del secolo XX; ma come il pianeta terra che pur viaggiando a 1.275 km/hr (alla latitudine dell’Italia) pare fermo, anche l’epopea ciclistica del Giro d’Italia pur restando identica alle origini, nello spirito è l’esaltazione della dinamicità.




Ed è questo l’accordo con il perenne, con l’eterno movimento dei corpi celesti e delle gambe a mulinare sui pedali che rende tale sport olistico, si direbbe filosoficamente. Quasi ne marcasse il carattere imperituro, il logo del Giro di quest’anno, le ruote della bici formano il simbolo dell’eternità, ripropongono il moto perpetuo e quindi l’unione col tutto fisico-spirituale: passato, presente, futuro.
Anche quest’anno il giro ha virato sul Vulture, in realtà il vulcano è sovente lambito dalla corsa rosa, perché naturalmente prestato a far da boa a tutti i movimenti peninsulari, come dimostra l’incrocio sempiterno delle vie storicamente principali. A giudicare le due tappe nelle città regine della zona, Venosa e Melfi, il Vulture ne è uscito al meglio. Ci si lamentava del maltempo, eppure pioggia e nebbia hanno ravvivato i colori dei boschi e dei prati, un po’ come se avesse pulito un affresco. Monticchio, dalla telecamera dell’elicottero, emergeva dai banchi di nebbia che replicavano, all’altezza del monte di S. Michele, i due specchi d’acqua sottostanti, mentre all’intorno i cento toni di verde e il giallo delle ginestre squarciavano il grigio del cielo. Anche il castello normanno di Melfi offriva, per effetto delle acque, varie sfumature di bruno: il possente manufatto, visto dall’alto, pareva un poliedro di grafite.
Paesi vetusti, dall’Ofanto a Lagopesole e fino ai contrafforti di Ruvo e S. Fele, hanno reso felici gli amanti di questo sport, non solo i residenti in loco. Il richiamo alle origini è puntualmente rispettato anche quest’anno, e di questo ringraziamo gli organizzatori, eredi di quei sognatori in stile Schliemann che cercarono per altre vie di riallacciarsi ai padri, in quelle campagne sperdute della provincia italica, suggestionati dallo studio dei luoghi delle memorie e dalla prova sul campo.
Per i lucani tuttavia queste occasioni sono anche una riscoperta di sé stessi; è infatti ancora troppo recente l’uscita dal limbo in cui erano precipitati, fin dal tempo di quell’emigrazione feroce che nel dopoguerra spogliò la Lucania relegando anche il Vulture, tradizionalmente l’area più ricca della regione, ai margini degli eventi. Un commento televisivo di natura enogastronomica, nella tappa Venosa-Laceno, mise l’accento sul fatto che la stessa uva aglianica era usata fino a metà del secolo XX per tagliare, dare forza, ai vini settentrionali. Come a dire che erano gli stessi vulturini a non credere in loro, svendendo gli acini blu-neri quand’oggi l’aglianico è tra i vini più rinomati. Che sia ancora Vulture dunque, negli anni a venire, certi che la carovana dei sogni in rosa non tarderà a ripassare, offrendo al contempo frotte di turisti in più e autostima in chi vi risiede.
Tratto da:Onda Lucana®by Ivan Larotonda
Si ringrazia l’autore per la cortese concessione. Immagini di copertina/interne tratte da repertorio di Onda Lucana by Antonio Morena.
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