Cultura, MetisMagazine 3 marzo 2017

La questione del brigantaggio è sempre piuttosto controversa, comunemente continuano ad esserci due contrapposte fazioni: apologeti e detrattori. E la figura del brigante è tuttora vista come eroe o delinquente.

Ma vediamo come nasce il fenomeno che  coinvolse l’intero Sud Italia nel periodo postunitario e la partecipazione delle donne alla lotta brigantesca.

Il sentimento diffuso dopo l’Unità di Italia è misto a rabbia e voglia di riscatto, l’oppressione borbonica continua a serpeggiare tra la popolazione: il problema dell’ingiusto legittimismo borbonico delle terre, che portò all’esasperazione contadina, la leva obbligatoria e l’oppressione fiscale, sono parte dei problemi che contribuirono  a generare il malcontento, che successivamente sfociò nel fenomeno del brigantaggio.

È la lotta dell’oppresso contro l’oppressore, come anche i padri gesuiti della “civiltà cattolica” rammentano nei loro articoli (la rivista cattolica fu storicamente schierata su posizioni antiunitarie –ndr): «Questo che voi chiamate con nome ingiurioso di Brigantaggio non è che una vera reazione dell’oppresso contro l’oppressore, della vittima contro il carnefice, del derubato contro il ladro, in una parola del diritto contro l’iniquità. L’idea che muove cotesta reazione è l’idea politica, morale e religiosa della giustizia, della proprietà, della libertà».

È proprio in questo periodo storico che la figura della donna emerge nel brigantaggio, non più come vittima, assoggettata al volere del proprio uomo e quindi complice silente delle malefatte o druda (termine usato con accezione dispregiativa, volendo indicare l’amante disonesta, la femmina di “malaffare” che trasgrediva le leggi – ndr).

Nonostante il ritardo degli storici a considerare il ruolo attivo delle donne nel brigantaggio, sono molte coloro che hanno spontaneamente preso parte al movimento; il profilo che viene stilato è quello di donne indipendenti, pronte a ribaltare il proprio status quo, non è più quindi la lotta contro l’invasore, ma la lotta per la propria affermazione identitaria, ribellione non solo verso i poteri “alti”, ma contro ogni forma di sopruso.

C’è però una differenza che è doveroso sottolineare tra la “donna del brigante” e la “brigantessa”. Le prime avevano un atteggiamento remissivo: molto spesso è colei che ha voluto seguire il suo uomo o è stata costretta a farlo. Solitamente avevano il compito di mantenere i contatti con i parenti o altri membri del gruppo datisi alla macchia, oltre ad avere la mansione di infermiera e vivandiera.

La seconda, invece, la “brigantessa” per affermare il proprio stato di forza si unisce a bande di briganti ed è fautrice di azioni illecite e violente; la sua è una scelta volontaria e non ha nulla da invidiare agli uomini in fatto di efferatezza.

Molte di loro venivano fotografate dopo la cattura, con le armi in pugno e in abiti maschili, alcune venivano ritratte anche dopo la morte. A tal proposito vi è un episodio che è bene ricordare per la ferocia del gesto e degli intenti: la pubblica esposizione del corpo martoriato e seviziato della brigantessa Michelina De Cesare, nella piazza del paese in cui era nata, e successivamente fotografato a “futura memoria”.

Diventata poi icona del brigantaggio femminile, Michelina fece largo uso della fotografia per propaganda ideologica (si presume che i fotografi fossero al servizio dei Borboni); nelle immagini più diffuse la si vede ritratta con costumi tradizionali, atteggiamento fiero ed armata. Le armi da lei possedute sono una doppietta (fucile da caccia a due canne – ndr) e una pistola, armi che di solito venivano destinate a chi ricopriva un ruolo di comando.

michelina-de-cesare-brigantessa

Ripercorriamo la sua storia: Michelina nasce nella provincia di Terra di Lavoro, oggi un paese del casertano, resta vedova giovanissima del marito Rocco Tanga. L’anno successivo, il 1862, incontra e segue Francesco Guerra, ex soldato dell’esercito borbonico datosi alla macchia subito dopo la nascita del nuovo Stato, egli si unì alla banda di Rafaniello, di cui successivamente divenne capo alla morte di quest’ultimo.

Michelina diventa da subito un elemento di spicco della banda, tanto da possedere le armi riconosciute ai capi.  La tattica di combattimento della banda era tipicamente quella della guerriglia, con azioni di piccoli gruppi che si disperdevano alla spicciolata subito dopo l’attacco, per riunirsi successivamente in punti prestabiliti; gli attacchi non scemarono neanche quando dopo il 1865, in molte zone del Sud, il brigantaggio era stato già ridimensionato.

La latitanza di Michelina De Cesare, e quella della banda, durò molti anni dal 1862 al 1868, probabilmente lo si deve alla tecnica appena descritta. In quegli anni la repressione verso il brigantaggio si era intensificata e in quelle zone fu mandato il generale Emilio Pallavicini di Priola (anche conosciuto per essere andato al comando del corpo di Roma dopo la breccia di Porta Pia del 1870 – ndr); la donna fu catturata il 30 agosto 1868, dopo la “soffiata” di un uomo del posto alle autorità, cadendo nella trappola appositamente architettata. Di come il suo corpo venne oltraggiato, abbiamo già memoria.

Tratto da:https://metismagazine.com/2017/03/03/il-ruolo-della-donna-nel-brigantaggio-michelina-de-cesare-la-brigantessa/

 

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