Si chiamano ‘tax ruling’, ovvero accordi fiscali segreti da parte degli Stati con le multinazionali con vantaggi tangibili in termini fiscali, solitamente in cambio di investimenti sul territorio. Gli ultimi dati ufficiali, pubblicati dalla Commissione europea e relativi al 2015, dicono che i tax ruling concessi dall’Italia alle grandi imprese hanno raggiunto quota 68. Il doppio rispetto a tre anni prima. Il balzo ci ha proiettato in cima alla classifica delle nazioni europee che strizzano l’occhio alle grandi corporation. Oggi siamo quarti, preceduti da Lussemburgo, Belgio e Ungheria.

Il problema è che i beneficiari di questi accordi restano segreti, così come i loro contenuti. E questa mancanza di trasparenza alimenta sospetti. I contratti in questione servono in teoria alle multinazionali per sapere come le autorità del Paese ospitante calcoleranno i profitti tassabili. Così, diversi paesi offrono ai grandi gruppi l’opportunità di spiegare in anticipo come intendono organizzarsi. Con un vantaggio duplice: lo Stato sa più o meno quanto incasserà a fine anno, la multinazionale evita il rischio di controlli a sorpresa. I ruling possono però essere usati anche per eludere il fisco, quasi sempre spostando i profitti nei Paesi dove le imposte sono più basse. Per questo l’Europa è corsa ai ripari con una riforma che il commissario all’Economia, Pierre Moscovici, ha definito “un importante passo in avanti”. Dall’anno scorso gli Stati Ue sono tenuti a scambiarsi le informazioni sui ruling emessi.

Il settimanale L’Espresso ha indagato sui beneficiari dei tax ruling italiani, scoprendo i nomi di tre multinazionali che hanno firmato accordi riservati con l’Agenzia delle Entrate. Ne mancano tanti, visto che in totale sono 68, ma queste storie permettono già di comprendere la posta in gioco.

PHILIP MORRIS – Nel suo bilancio 2015 – si legge nell’articolo – Philip Morris dichiara di aver concluso con l’Italia, negli anni precedenti, degli «accordi di ruling di standard internazionale». Il linguaggio è tecnico, i dettagli sono ridotti all’osso, ma la sostanza è chiara: la multinazionale americana del tabacco ha ottenuto un tax ruling che riguarda i prezzi a cui la sua filiale tricolore compra le sigarette da altre società del gruppo. Questione cruciale per l’azienda delle Marlboro. Dai costi d’acquisto delle bionde dipendono infatti i profitti dichiarati in Italia. E di conseguenza le imposte. Prendiamo per esempio un pacchetto di Marlboro rosse. Oggi al fumatore costa 5,20 euro. Se Philip Morris Italia acquista il pacchetto dalla sua filiale estera a 5 euro, pagherà a Roma imposte solo sui 20 centesimi di guadagno lordo (al netto di altri costi sostenuti in Italia). Se invece lo stesso pacchetto viene comprato dalla filiale nostrana a 4 euro, le imposte verranno calcolate su un guadagno lordo di 1,20 euro, dunque molto più alto per Philip Morris e altrettanto redditizio per il Fisco. Su tutto questo, purtroppo, né l’impresa né lo Stato italiano pubblicano dettagli. Non resta perciò che continuare ad analizzare il bilancio.

MICHELIN – Schema molto simile quello adottato dall’azienda francese produttrice di pneumatici. Il contratto – si legge nel bilancio – e riguarda “la determinazione dei prezzi di trasferimento” tra la filiale italiana e “le principali società dell’Europa dell’Ovest appartenenti al Gruppo”. Anche qui il ruling è stato dunque fatto per decidere a quale prezzo la filiale italiana deve acquistare prodotti dalle succursali straniere. Particolare fondamentale per determinare quante imposte dovranno poi essere versate a Roma.

MICROSOFT – Un altro colosso globale che ha stretto accordi fiscali riservati – si legge sempre nell’inchiesta de L’Espresso – è Microsoft. Ma il caso sembra molto diverso dai precedenti. La multinazionale controllata da Bill Gates ha firmato il ruling il 30 giugno del 2015. Un accordo valido per quattro anni, di cui però non si sa altro. I numeri dicono che in Italia l’azienda ha margini di guadagno quasi doppi rispetto alla sua media mondiale. Ma non vale lo stesso per il gettito fiscale, poiché buona fetta del fatturato realizzato vendendo software in Italia non viene registrato dalla filiale nostrana. Lo scrive la stessa multinazionale nel suo bilancio: “È importante rilevare che Microsoft Srl non vende ai clienti i prodotti di Microsoft, in quanto le vendite sono effettuate da Miol”. Miol sta per Microsoft Ireland Operation Limited, società del gruppo registrata a Dublino, che conta meno dipendenti della succursale italiana ma guadagni ben più consistenti.

La multinazionale americana ha d’altra parte ottenuto garanzia di poter continuare a registrare buona parte del fatturato in Irlanda. E poi la sicurezza di non vedersi più piombare la guardia di finanza in azienda. Come avvenuto quattro anni fa, con un accertamento fiscale costato al colosso di Redmond 6,3 milioni di euro. Più o meno equivalente al surplus di tasse versato al fisco da quando è stato sottoscritto il ruling. Un’inezia, rispetto ai 21 miliardi di dollari di guadagni netti incassati al livello mondiale nell’ultimo anno. Ma le multinazionali come Microsoft, si sa, sono macchine da soldi. E dalla concorrenza fiscale tra i Paesi europei hanno solo da guadagnare.

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