Mercanti briganti

Tratto da:Onda Lucana by Ivan Larotonda

Furbo come un mercante è il classico detto solitamente rivolto a chi riesce a speculare su qualsiasi situazione, ma quando tale proverbio lo sentiamo come naturale “aggettivo qualificativo comparativo” di un popolo ecco che la situazione comincia a complicarsi, per gli altri si intende, perché il mercante vince sempre; d’altronde si dice che il banco esce fuori dal gioco, inevitabilmente, guadagnando sulla altrui ingenuità, e speranza, (e io aggiungo soprattutto la dabbenaggine di chi gioca).

A livello globale abbiamo quindi, storicamente, un tipo di potenza politica che fa del mercato la sua unica forza, e anche l’avversario di turno è legittimato agli occhi dell’interlocutore bottegaio soltanto se fonda egli stesso la sua politica sugli stessi principi mercantili. Salvo poi smentire se stessi allorquando l’entità statale “competitrice” supera, o semplicemente viene percepita come una minaccia dalla potenza mercantile egemone per eccellenza.

Dalle nostre parti il primo a intuire la pericolosità di una potenza politica fondata sul mercato fu l’eccelso Tucidide ne: “La guerra del Peloponneso”; leggendo la fase storica che precedette l’inizio del conflitto tra Sparta e Atene ci si rende conto di come il grande storico non fatichi minimamente ad individuare nella tracotanza mercatistica ateniese la causa principale che portò alla grande guerra civile ellenica.

La città di Pericle aveva allestito una potente flotta che imperava sui mari dell’Egeo, e come strumento politico a sostegno e giustificazione della presenza di questa forza navale aveva creato la lega di Delo, dal nome dell’isola che ospitava il tesoro e la sede delle città alleate, ipocritamente perché in realtà tutto era gestito dagli ateniesi.

Dunque Atene, tramite questa lega, dominava non solo i nemici ma anche, e soprattutto, le città ad essa legate da patti più o meno consenzienti; più spesso era la forza militare che derivava dalla sua flotta ad intimorire gli isolani, i quali finirono col subire dalla democrazia ateniese molta più oppressione di quella che avevano avuto dal dominio persiano! I liberatori s’erano tramutati in sanguisughe spietate dedite a spremere gli alleati.

A questo panorama di desolante tirannia democratica vanno aggiunte le campagne militari assurde e incomprensibili in Egitto e nella Lidia, sempre, dicevano gli ateniesi, per abbattere il tiranno persiano. La mirabile flotta da guerra ateniese, forte di duecento triremi, si disperse lungo il Nilo per appoggiare un avventuriero libico che s’era messo in testa di “liberare” l’Egitto dal domino del Re dei Re, ma i suoi prodi opliti, dopo i primi successi, furono costretti a una ritirata che potremmo paragonare a quella che subirono le armate napoleoniche affidate al generale Kleber, il tutto mentre i corinzi, alleati di Sparta, dilagavano per l’Attica. Era solo il primo dei disastri che culminarono nella celeberrima disfatta di Sicilia; laddove il primato ateniese sui mari si consumò definitivamente.

I mercanti avevano perso nel solo modo in cui potevano farlo, ossia disperdendosi grazie all’avidità propria di chi non sa porsi un solo obiettivo da portare a termine, ostinatamente e tenacemente. Il difetto, un limite invalicabile, proprio delle potenze marittime è questa sorta di gastrimargia che le prende quando vedono apparecchiato dinanzi a loro l’intero mondo, e ritengono di poterselo divorare per intero.

Agiscono militarmente come se dovessero mettere la firma su importanti contratti commerciali, ma questi ultimi affari si possono portare avanti con relativa tranquillità e soprattutto contemporaneamente a più trattative in corso; in guerra è tutt’altra storia. Disperdere forze non equivale automaticamente al raggiungimento di un’alta percentuale di contratti e dunque guadagni, al contrario si rischia la disfatta totale, cosa che avvenne nel 406 a. C. quando il Re di Sparta Pausania pose fine alla guerra del Peloponneso entrando a capo del suo esercito in una Atene sfinita da decenni di guerre, ed al suono grave dell’aulos abbatté le mura della superba capitale talassocratica.

Finora ho descritto, per sommissimi capi, i disastri della politica mercantilista ateniese; però, a ben guardare, le stesse parole si possono ben riferire a un’altra potenza mercantile, ma odierna: ve ne siete accorti? In fondo è facile capirlo, basterebbe togliere Atene e Delo e sostituirle con USA e NATO e abbiamo lo stesso risultato, la stessa evoluzione degli avvenimenti.

Gli Stati Uniti hanno la flotta più grande del pianeta, undici portaerei con al seguito, ognuna di esse, una decina di navi ben armate come scorta. Le forze di fanteria marina che imbracano i celeberrimi marines sono regolarmente inviati in ogni angolo del mondo e da quasi un secolo. Tutto questo apparato a cosa serve?

A far credere che sono sempre nel giusto anche quando sbagliano? A ritenere opportuno distruggere Montecassino e Dresda, Baghdad e Aleppo, scrigni di impareggiabile bellezza architettonica perché custodi dell’anima nobile dell’umanità, per il semplice fatto di essere una potenza democratica? Anche Atene lo era, anzi, tutti i demo-liberal odierni vantano l’acropoli cara a Eretteo per aver dato la luce a questa insuperabile invenzione politica. In astratto tutta questa perfezione si bea di se stessa, quando poi la democrazia scende dall’iperuranio e deve fare i conti col mondo materiale è qui che cominciano i problemi, e sono seri.

E si scopre che gli ateniesi democratici erano più classisti del peggior tiranno, per inciso la popolazione povera ebbe più vantaggi dalla dittatura di Pisistrato che dall’oligarchia periclea. E la NATO? Strumento di potere statunitense sul vecchio continente conferisce l’appoggio politico ai partiti neonazisti ucraini! Alquanto bizzarro no? Dopotutto gli americani avevano combattuto Hitler, o mi sbaglio?

Il punto è che la democrazia in mano a logiche di mercato risulterà sempre zoppa; “incarnandosi” in uno Stato retto dalle lobbies, nient’altro che privati con ricchissimi patrimoni, scriverà sì le sue regole su base popolare, ma fino a quando queste non risulteranno in contrasto con gli interessi dei nuovi signori della superclasse internazionale.

L’internazionalismo stesso non è poi una creazione marxista, è nata con i commerci e le città stato che avevano come loro guida un’oligarchia mercantilista. Lo stesso discorso si può applicare alla civiltà fenicia ed il suo “naturale” cosmopolitismo; su tutte la grande Cartagine e i suoi eserciti di mercenari pagati con le enormi ricchezze frutto di traffici, e imbrogli, ai danni di lontane popolazioni: i punici si spingevano via mare fino al golfo di Guinea.

La perenne lotta tra gli imperi talassocratici, (talassà= mare; crazia=forza) e quelli terrestri, più propriamente politici perché fondati da aristocrazie terriere totalmente disinteressate all’incremento delle ricchezze, si protrae da millenni e ha visto sempre la vittoria finale di questi ultimi: Sparta su Atene, Roma su Cartagine, in futuro Russia sugli USA?

La questione richiede “nuove puntate” per essere esaminata più approfonditamente, anche perché entrano in campo nuove forme, diremmo ibride, di società e stati nazionali; la Cina ad esempio è sempre stata un grande impero di tipo territoriale, ma al contempo base di partenza della vastissima rete di commerci terrestri chiamata via della seta. Resta il fatto che qualsiasi mercante del celeste impero e dell’attuale regime comunista-liberista è comunque soggetto e controllato dal forte apparato burocratico statale che si regge in piedi, ininterrottamente, da tre millenni!

Questo mette al sicuro il popolo cinese dalle derive liberali, quelle, si intende, che portano allo smembramento delle nazioni e delle società. Gli anglosassoni hanno concesso sempre più poteri ai mercanti? Il risultato è sotto gli occhi di tutti: società atomizzate, senza Patria né destini comuni, ognuno fa quel che vuole purché chi è ricco lo diventi ancor di più, e se a qualcuno non va bene, tipo all’autoctono, ecco che il mercante al potere acquista immediatamente un altro cittadino, dall’Africa via Libia, ovviamente. In fondo quest’ultimo risulta più malleabile e disposto a lavorare per stipendi sempre più bassi, consuma poco e rende assai: gli basta una moschea, un pugno di riso al giorno e un pollo fritto nell’olio esausto. Business is business!

Tratto da:Onda Lucana by Ivan Larotonda

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