Sfide nel segno dell’azzurro
Tratto da:Onda Lucana by Ivan Larotonda
Estate, stagione di duro lavoro nei campi, sotto la canicola feroce che toglie il respiro, ma anche di guerra, quella che nell’evo arcaico si combatteva dopo aver terminato i raccolti, onde evitare che finissero in mano al nemico. Estate è dunque il tempo votato all’agone, anche quello non cruento detto oggi, con aggettivo squalificante, sportivo: d’altronde le olimpiadi si svolgono ancora oggi in questa stagione. Se la vita è lotta, l’estate la moltiplica; vincere e perdere e reiterare assalti alla ventura o alla logica. Affidarsi al cieco anelito dionisiaco, mai definitivamente sopito, o alla ratio apollinea che però proprio in estate, non certo adusa a riflessione, si arrocca sdegnosa.
Le terre di mezzogiorno si tingono di giallo cereale e verde di novelle foglie, su tutte campeggia un cielo che da azzurro intenso vira al bianco, come se il caldo facesse piovere latte. Già, le nostre terre grondanti latte e miele: questa diceria fece scendere da noi i formidabili cavalieri normanni, e ne rendiamo grazie, perché le loro opere belliche ci fanno annoverare ancora tra i latini! Azzurro era il campo dello scudo imbracciato dagli Altavilla, che fondarono il regno del Sud Italia. Sostituiva quel rosso porpora, troppo pretestuoso, segno d’irripetibile grandezza romana, quasi offesa esibirne il tono sugli stendardi.
Meglio accomodarsi su provinciali tonalità, modeste sì, ma che altro si poteva fare quando tutto il mondo ti calava addosso? Non curando vanesie tracotanze, ma spronando cavalli franchi in mezzo alla mischia, Ruggiero il gran Conte a Cerami abbattè con lama e scure migliaia di arabi, ponendo fine al loro dominio nefasto per le terre sicule e l’intero mezzogiorno italico. Tuttavia un suo pronipote, il grande Federico, volle ritagliarsi, a modo suo e in spregio al Papa, un angolo di cielo fra l’Adriatico e il Tirreno su cui far rivolare l’aquila imperiale. Era destino però che di sede Cesarea non se ne potesse più parlare in Italia, e allora venne la canaglia gallica, vera cagione della questione meridionale.
Dopo i sessant’anni di saccheggi angioini pareva di vedere i Trastamara sul punto di costruire una monarchia nazionale. Quando, ancora una volta, ritornarono li franzosi, come venivano chiamati dai nostri avi coloro che abitano al di là delle Alpi, a recuperare un regno a cui evidentemente restava ancora qualcosa da rubare. Si chiedeva, Giustino Fortunato, dove stessero gli italiani in quegli anni di continue spartizioni, guerre, saccheggi e angherie all’insegna del Francia o Spagna purché se magna. Viene da rispondere, al nostro illustre conterraneo, che gl’italiani perseverano ancor oggi nell’identico stato atarassico. Non siamo in grado di sostenere un sacrificio, non dico perpetuo, ma nemmeno della durata di una generazione! Quasi che non avessimo nulla più da far dire alle armi e alla politica, dopo il 476 d.C.!
Siamo buoni solo a slanci d’ira, come nei vespri di Sicilia, oppure a Barletta, quando su invito del gran capitano Consalvo di Cordova, comandante dell’esercito spagnolo in Italia, 13 cavalieri italiani affogarono nella polvere i prepotenti gigli di Francia. Fu una gran giornata sì, laddove i cieli tersi del meridione cinsero anche il braccio dei nostri armati. Perché, come tradizione vuole nei tornei degli armati, la nobildonna del territorio di tenzone donava il velo al suo campione. In questo caso Isabella d’Aragona, splendida ducissa di Bari, consegnò ad Ettore Fieramosca un nastro azzurro; avrebbe identificato i cavalieri italiani. Voglio pensare che sia nato da questo, e non dall’azzurro Savoia, l’usanza per gli italiani in agone di indossare l’empireo. Certo, i desideri, (quanto mai appropriato il de-sidereo) si scontrano con la realtà. Nella prima partita giocata dalla nazionale italiana di calcio gli atleti erano di bianco vestiti.
Fu a Milano, fucina di fermenti massonico-patriottici ormai da oltre cent’anni, precisamente nell’Arena, che esordì l’Italia, e manco a farlo apposta la sua prima partita la giocò proprio contro la Francia. Era il 15 maggio del 1910 e finì 6 a 2 per i nostri, che dunque indossavano casacche bianche. Per l’esordio azzurro bisognò aspettare poco più di sei mesi e finalmente, il 6 gennaio del 1911, gl’italiani “tornarono” al colore che il destino aveva loro riservato. Si disse che fu in onore della casa Savoia, che come detto aveva l’azzurro come campo dei labari scudocrociati. Era un segno di devozione alla Madonna quel colore scelto dai riunificatori d’Italia, da sempre si associa alla Santa Vergine, colei che ci spalanca i cieli e ci porta a Dio.
Ma allora si può credere che anche in passato la mano della Teotokos si sia protesa sulla Penisola, quando fece scegliere l’azzurro a Isabella, perché in fondo la giustizia divina non poteva che stare dalla parte degli italiani, quel fausto giorno nei pressi di Barletta. Il nostro è un destino tinto d’azzurro; nel blu dipinto di blu, recita il nostro brano più famoso, anch’esso figlio di un meridionale, e non poteva essere altrimenti. Penisola nata dal mare, come Venere, e infatti nessuna è più bella di lei. Onusta di glorie che abbagliano l’intera Ecumene; tutti ne vogliono carpire almeno una scintilla, ma nessuno vi riesce a trattenerne la luce.
Tratto da:Onda Lucana by Ivan Larotonda
Si ringrazia l’autore per la cortese concessione. Immagine di copertina tratta da Web fornita dall’autore.