VULTURE SACRO – (Prima Parte).

Tratto da:Onda Lucana®by Ivan Larotonda

Per chi abita nel Vulture è celeberrima la quarta ode del terzo libro di Quinto Orazio Flacco, a motivo dell’episodio consumatosi sul suddetto monte-vulcano e che vide protagonista il poeta al tempo della sua età ingenua, quando la puerilità si lancia a scoprire il mondo tramite il gioco. Il tono dell’ode però si fa quanto mai autorevole nel momento in cui nobilita quel “ricordo d’infanzia”; il perdersi nella selva che si tramuta in fanum. Cosicché la fitta sequenza di tronchi frondosi, radici inarcate dal terreno, edere e rovi guizzanti a ogni soffio di vento, lungi dall’incutere timore preparano all’evento soprannaturale.

In antinomia con quanto accaduto a Dante, perché le forze metafisiche prossime a manifestarsi a Orazio provengono dai regni della luce, è il lucus (radura di luce sacra) contrapposto a tenebrae (altra sacralità, ma plutonica); e così, una volta scappato alla sorveglianza della nutrice Pullia, stanco per il girovagare e soprattutto per il gioco, casca addormentato (Orazio non lo dice, ma lascia immaginare che abbia avuto un giaciglio di foglie secche) per essere poi ricoperto d’allori sacri e mirto ad opera di favolose colombe, nonché immune da qualsiasi attacco di orsi o vipere.

Lo stupore per quanto accaduto giunge fino agli estremi confini della colonia venosina, a quegli abitanti di Acerenza e Forenza che così tramanderanno di un fanciullo protetto dagli dei. Il racconto, pur studiato nei suoi significati anche reconditi, trova però ben pochi accademici o semplici amatori della materia disposti a constatarne, o quanto meno ipotizzarne, una qualche forma di attinenza con il reale.

Viene di comune accordo ritenuto semplice esercizio poetico; nessuno, o quasi, nutre dubbi su questo perché per noi, a distanza di due millenni, è la stessa vetustà del fatto a farlo rientrare nella categoria del mito. In pratica, per chi voglia crederci davvero basta far riferimento, in un estremo tentativo razionalizzante, di paragonarlo ad una qualche forma di agoghé.

Ed è qui che entriamo nel cuore del discorso, che sia vero o falso non ha importanza, ciò che conta è la percezione che si aveva dinanzi a tali episodi al tempo in cui venivano divulgati. Nello specifico è rischiarante il sostantivo usato: quel fabulosae che allude a secoli ben più remoti rispetto alla generazione del poeta venosino. Me fabulosae Volture in Apulo, altricis extra limina Pullia […]

Fabulosae descrive eventi riconducibili all’età dell’oro (i Saturni regni, ben noti ai romani e agli italici in generale) piuttosto che a epoche storiche. Ma nell’ode si riferisce esclusivamente alle colombe o racchiude l’intero monte? Sappiamo che fabulosa è un sostantivo derivato dal verbo fari, a sua volta dalla radice fa. E che dunque il fari: «indica un parlare la cui potenza può perfino assumere un fondamento soprannaturale, come nel caso delle parole pronunziate dall’indovino o dall’augure».[1]

Per questo fabula è identica a mythos greco; entrambi erano racconti autorevoli che riguardavano epoche non ancora codificate cronologicamente, dunque ante-storiche. Ma trattavano di rapporti tra uomini e divinità, di quel tempo in cui, come diceva Hegel, gli dèi vivevano cogli uomini. Tutto è sacro in ogni principio; il ius, quel che sarà la legge, rientrava nelle categorie della religione e veniva emanato dal rex sacerdos. Solo in un secondo tempo da ius si ricava la “costola” fas, rapporto uomo-Dio, e perciò il primo passa a regolare il rapporto uomo-uomo. Invariabili però restano le figure e i loci che hanno a che fare con ius e fas; infatti chi è più autorevole di un magistrato rivestito d’imperium oppure di un pontefice? E di conseguenza il templum usato da entrambi?

Tra le categorie del favoloso rientrano poi le storie in cui sono protagonisti gli animali, pensiamo a Fedro ad esempio; e sono queste bestie ad assumere autorità perché agiscono, parlano e sentenziano su indicazione divina. In questo caso le colombe che incoronano il fanciullo sono inviate dalla dea locale Venere, colei che ha dato il nome alla stessa colonia da cui tutto il Vulture dipende. Per cui, a questo punto, è l’intero vulcano ad essere ammantato dalla fabula, a diventare luogo mitico alla stregua del Lupercale, anch’esso definito fabuloso perché è la grotta che ospitò i numi: la lupa inviata da Marte che allattò i gemelli, ma anche il picchio, altro animale sacro a Marte. Perciò il sito diventa sacro, va oltre il fenomenico.

[1] M. Bettini, Weigthty, Words, Suspect Speech: «Fari» in Roman Culture, in «Arethusa», 41 (2008), n. 2, pp. 313 sgg.

Tratto da:Onda Lucana®by Ivan Larotonda

Si ringrazia l’autore per la cortese concessione. Immagine di copertina tratta da Web.

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