IRAN E NON IRAN

Tratto da:Onda Lucana®by Ivan Larotonda

Quando si parla di società il dato di fatto che va incluso a priori è che esistono due mondi che si confrontano, uno ciclico e un altro che mira all’infinito. In verità quest’ultimo ha una genesi piuttosto recente, poiché si forma a partire dal postulato giacobino del progressismo, di quell’andare avanti sempre e comunque; al contempo, disprezzando tutto ciò che è passato e che dunque va eliminato. L’umanità venuta fuori in quell’angolo di mondo dove si è teorizzato e poi realizzato tutto ciò non poteva che essere l’occidente. Quivi si afferma l’Emilio di Rousseau: uno che si fa da solo, come asseriscono con tetragona certezza i prometeici del nuovo uomo a cui consigliano, ugualmente al personaggio del romanzo, una sola lettura, il Robinson Crusoe; perché deve addestrarsi ad apprendere direttamente dalla natura, senza nessuna costrizione culturale.

Ne discende così un naturale disprezzo per le cose patrie, per il mondo che si rifaceva ad un principio immutabile nel tempo. Giacobinica etica imposta dai regimi liberali in qualsiasi parte di mondo dove essi si sono affermati. Ecco come si spiegano le intemerate di attiviste iraniane che conoscono il resto del mondo meglio dell’Iran, avendolo lasciato in tenera età; la sua poi non è certo un’eccezione, gli internazionalisti sono tutti così.

Appartengono all’Emilio, per l’appunto, si rifanno ogni giorno senza conoscere le profonde radici da cui provengono. L’irano-lucana ha mai letto la Ciropedia di Senofonte? Il velo non è invenzione degli Ayatollah, e nemmeno islamica. Scrive Senofonte nella sua opera paideutica (che in questa riflessione è il contraltare tradizionale al poema rousseauiano), che Ciro il Grande chiede al suo amico Araspa di curare l’incolumità di Pantea, moglie del principe di Susa Abradata. Araspa scorge la bellezza della donna, primariamente velata, solo quando le annunciano che sarebbe stata ben accetta da Ciro. Al che Pantea, fedele al marito, in preda a dolore: «… si squarciò la parte superiore della veste… Così denudò quasi interamente il volto e le si scoprirono anche il collo e le mani.» (V 1, 2-8), e siamo nel VI secolo a. C.!

L’irano-lucana lo sa che anche i costumi tradizionali di Basilicata (che le pro loco si affannano, direi eroicamente, a ricostruire nel modo più fedele possibile), sono tutti forniti di velo, per dire, d’ordinanza? Che le donne italiche e quindi anche lucane, e le loro sorelle iraniche, usavano coprirsi financo le mani (come nel brano riportato), perché rispondevano ad un canone di bellezza che loro stesse s’erano imposte? Il biancore della pelle doveva essere preservato nei deserti dell’altipiano iranico da fanciulle e signore che venivano dalla Scizia, l’area degli Urali da cui s’originarono le stirpi indoeuropee. Evidentemente dalla California queste cose appaiono sbiadite, lontane geograficamente e ancor più dal cuore.

A questo punto mi pongo tre domande: se ci si accanisce tanto sull’hijab allora perché non vietare anche il kimono giapponese, il kilt scozzese o il deel mongolo? Le differenze vanno eliminate solo quando non rispondono alla plutocrazia anglò? I popoli che si sottomettono possono esibire il proprio folklore altrimenti sanzioni e bombardamenti democratici?

Non parliamo poi di diritti; l’occidente li ha resi tutti privati perché tutti i beni pubblici sono oramai privatizzati, persino l’aria. E per le donne il sistema liberale ha reso pressoché impossibile il più bello dei loro diritti: quello a essere madri. Eppure quest’Occidente che vanta di proteggere ed includere tutto e tutti, le uniche che rifiuta di integrare sono proprio le tradizioni dei popoli, le diversità. Dopotutto che possiamo pretendere da Emilio? Deve crescere senza radici!

Tratto da:Onda Lucana®by Ivan Larotonda

Si ringrazia l’autore per la cortese concessione. Immagine di copertina tratta da Web fornita dall’autore.

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